Continua con questo racconto di Marta Casarini la collaborazione con l’Associazione ScriptaBO e gli Esercizi di scrittura del paesaggio emiliano-romagnolo, urbano e naturale: morfologie, mappe, antropologie e geografie emozionali. 
Foto: archivio emiliodoc

Una volta ebbi paura e non me ne accorsi affatto.

Lo scoprii più tardi, mangiando un pezzo di finta pizza: mia madre faceva la maestra, aveva tre figlie e un marito fricchettone. Non poteva avere anche il tempo di cucinare. Le sere di certe giornate infinite, prendeva le fette di pancarré strappando il pacchetto di plastica con i denti, ci schiaffava sopra della polpa di pomodoro, due fette di mozzarella e le infilava in forno ad abbronzarsi finché non diventavano delle bruschette simili a mini margherite. La finta pizza, appunto. Pronta in dieci minuti, da mangiare con le mani sporcandosi il grugno.

E fu proprio con le guance rosse di pomodoro che pensai “oggi ho avuto paura”, con una lucida razionalità rara per una bambina di otto anni, la testa di solito piena di pony.

Quel giorno era cominciato con una frase che mi risuona ancora a distanza di trent’anni, come spesso accade con le cose che si imparano alle elementari.

Ma con gran pena le reca giù”.

“Sono i nomi delle Alpi, bambini, MArittime, COzie, GRAie, PENnine, LEpontine, REtiche e CArniche, GIUlie.”

E noi in coro, “Ma con gran pena le reca giù”.

Era difficile per noialtri, alunni di terza elementare di Monte San Pietro in provincia di Bologna, immaginare le altezze delle Alpi, imprimerci nella mente non solo i loro nomi, ma il profilo di catene che pensavamo dritte a braccetto, come vecchie zie nelle foto di famiglia: bianche sulle cime e impossibili da raggiungere.

Erano una chimera, perché le nostre passeggiate e i giri in bici dopo le lezioni di geografia non si inerpicavano su crinali ripidi da sherpa.

I nostri pendii erano i calanchi.

Era quello che vedevamo ogni giorno fuori dalla finestra della nostra camera, e nel tragitto tra casa e scuola, e ogni volta che uscivamo per comprare la Pimpa all’edicola, o il pane per la mamma da portare a casa senza farlo cadere. I calanchi erano le colline dalle dita sottili di strega, promontori rugosi senz’alberi, che cambiavano colore a seconda del tempo, della luce, del momento della giornata.

Che seguivano con occhi invisibili i gesti di noi bambini cresciuti all’ombra dei loro piedi di argilla.

La mattina del giorno in cui ebbi paura, dopo le Alpi vennero le divisioni a due cifre e dopo le divisioni a due cifre la merenda con la crescenta al prosciutto, e dopo la merenda religione e poi la campanella, in fila per due e poi esplosione dal portone della scuola verso casa, le cartelle grosse come zaini da esploratori sotto il cui peso camminavamo curvi e instabili.

Ma con gran pena le reca giù.

“Marta ci vediamo con la bici alle tre?”

“No oggi devo andare fuori con mio padre”

“Dai non ti va di fare le discese?”

Le discese, per la mia compagna di banco Eleonora, voleva dire buttarsi a rotta di collo in bicicletta lungo i sentieri del percorso fluviale del Lavino, il fiume dal letto sassoso che taglia in due il paese.

Si saliva sul calanco e arrivate quasi a metà si gridava “Tre, due uno! Più di noi non c’è nessuno!” e si andava in contro alla culata certa sfiorando i trenta km all’ora, scagliando sassi con le ruote verso l’alto, sporcandosi di argilla bianca, sfrecciando lungo l’erbetta timida dei crinali, vedendo sfilare a velocità folle con la coda dell’occhio i ranuncoli gialli e i soffioni sul bordo del sentiero.

Sì, mi andava.

Ma quel giorno mio papà mi aveva promesso una gita.

Partimmo verso le quattro.

Ricordo un cielo terso.

Mia mamma era ancora a scuola, le mie sorelle perse dietro qualche compito, qualche amico da andare a trovare.

“Oggi Marta non si studia, andiamo a camminare”.

Mio padre portò con sé una borsa di cuoio comprata in India e ci mise dentro una borraccia piena d’acqua, una mappa di Monte San Pietro e un coltellino dal manico bordeaux, scheggiato su un lato.

“Perché porti anche un coltellino?”

“Per raccogliere le cose che troviamo”

Cosa mi aspettassi, davvero, non so. Era strano essere da soli io e lui, non accadeva spesso, non accadeva mai.

Camminammo lungo il percorso fluviale: il ponticello di legno che attraversavo con Eleonora, il maneggio che conoscevo, con i cavalli che io e lei salutavamo prima di montare sulle bici. Mio padre si avvicinò a uno degli animali più grossi, gli mise sotto il muso una mano, e quello cacciò fuori un’enorme lingua umida, rosa, e gliela leccò come fosse di panna. Mio padre rise e commentò “Aveva fame, visto?”

Poi non disse più niente.

Ci inoltrammo in un sentiero in mezzo all’erba alta che non avevo mai visto.

Il cielo si incupì e tutta la campagna – i prati, le balle di fieno, le scanalature dei calanchi, dita di strega – divenne profonda e silenziosa.

Sentii forte l’odore di mio padre. Le sue mani tatuate sapevano d’incenso e cavalli. Le guardavo: grandi, callose, le unghie tanto corte da sembrare carne viva, capaci di tutto, di cogliere rose e sradicare mangrovie. Io lo amavo. Era lui, il mio papà. Era quello che sapeva pescare e suonare la chitarra. Costruiva le pedine degli scacchi con l’argilla che raccoglieva proprio da lì, dalle pareti franose dei calanchi. Era sempre insieme a qualcuno, amici musicisti, colleghi, zii, mie sorelle. Faceva sempre ridere tutti. Ma oggi era con me. Eravamo io e lui e la natura bizzarra che ci abbracciava.

Ci sdraiammo.

Chiudemmo gli occhi e ci prendemmo per mano.

Sarebbe potuto succedere tutto, sarebbe potuto arrivare il terremoto, un’alluvione, franare la terra, creparsi il sole. Sarei stata felice, ero con lui, ed era la prima volta che stava solo con me.

Non dicemmo niente, ascoltammo il suono del vento che frusciava tra l’erba dura e cominciava ad alzarsi sempre più forte.

Più forte ancora.

Il cielo, ancora più grigio.

E il vento, ormai potente come un ruggito.

Le piante di rosa canina si piegavano verso il terreno, i cespugli si dimenavano come streghe al culmine del sabba.

Sembrò che il mondo volesse inghiottirci, i sassi franarci addosso.

Nello scuotersi del mondo, udimmo il potente sbuffare di un elicottero avvicinarsi sopra di noi, diventare più potente.

Guardammo in alto, finalmente mio padre gridò

“Forse è successo un incidente”

E io non pensai a niente, né di preoccuparmi, né a schianti sulle strade, né a feriti.

Era semplicemente un fatto. Succede. Come cambiano i colori delle foglie.

Poi arrivò un altro elicottero.

E un altro ancora. Volavano vicini, cercavano un posto dove atterrare. Non è semplice farlo sui calanchi, nulla è aperto, in piano, nessun anfratto davvero limpido. Così si allontanarono, in cerca di punti più adatti lungo la valle.

E mio padre decise che era ora di tornare.

Ci alzammo, sempre tenendoci per mano. Mio padre si fermò per un minuto, prese il coltellino dalla sua borsa e tagliò una talea di rosa canina.

“Questa la piantiamo nel vaso di argilla verde per la mamma”.

Notai nei suoi piedi una fretta ignota, una preoccupazione che non gli apparteneva. Teneva la talea con maggior delicatezza possibile in mano, non stringeva più la mia.

Foto: archivio emiliodoc

Ma con gran pena le reca giù

Non parlammo finché non tornammo a casa.

Il forno era già acceso, le mie sorelle attorno al tavolo aspettavano di mangiare la loro finta pizza.

Il calore e la pace di casa arrossavano le mie guance di camminatrice.

Mio padre appoggiò la talea in cucina, accanto al vaso, senza metterla a dimora.

Si avvicinò a mia mamma, le bisbigliò qualcosa dietro la nuca. Lei lo guardò dubbiosa, aggrottando le sopracciglia. Smise per un attimo di raffazzonare pizze.

Si guardarono, accesero la televisione.

Il telegiornale disse che era scappata una tigre.

“…il circo aveva in programma dodici date nella provincia di Bologna, al momento sospese. Le autorità ritengono che l’animale possa essersi nascosto nella zona alle pendici dell’Appennino tosco emiliano. Le ricerche si stanno concentrando nel territorio di Monte San Pietro, attorno alle aree dei calanchi”.

Passò una macchina della polizia, qualcuno al megafono disse:

“Si pregano tutti i cittadini di rimanere nelle proprie case, ripetiamo, si pregano i cittadini di rimanere nelle proprie case fino a nuovo avviso”.

Mio padre non disse mai che io e lui eravamo davvero sui calanchi, quel pomeriggio.

Che forse una tigre ci stava spiando mentre riposavamo sdraiati sull’erba rada del terreno argilloso.

Né mia madre seppe mai che lui si fermò, esponendoci al rischio di possibile morte per sbranamento, a cogliere un ramo di rosa canina per farne pianta.

Né nessuno seppe mai che quel pomeriggio tra i calanchi è uno dei più bei ricordi che conservo di mio padre, e della mia terra, un fulgido intreccio di ore di vita che nulla hanno a che fare col terrore, col pericolo, con la paura.

Ciò che accade di indicibile resta impigliato nella bassa vegetazione, acquattato dietro le pieghe dei crinali, e scivola misterioso, invisibile e mutevole come duttile argilla nei percorsi della memoria.

Riferimenti:

Vedi anche:

Le foto:

Le foto di questo articolo sono di Marta Casarini
Elaborazione grafica immagine di copertina: emiliodoc