Affacciati amore mio
Con Esercizi di scrittura del paesaggio emiliano-romagnolo, urbano e naturale: morfologie, mappe, antropologie e geografie emozionali si apre un’altra e nuova pagina della nostra rivista, che invita gli scrittori che operano e vivono in Emilia-Romagna a scrivere per noi. Fra i primi ad aderire Maurizio Matrone e l’Associazione ScriptaBo, che ringraziamo per la collaborazione.

Prima ero chiusa.
Molto chiusa.
Nascosta.
E allora non sapevo che poi sarebbe stato così come adesso.
La gente, quando ero chiusa, passava sotto il portico e non mi vedeva.
E quando uno non sa, non vede.
Io, invece, li vedevo: erano giovani capelloni con basette e baffi larghi da messicani. Stavo lì, ferma, a guardarli davanti al ristorante. Portavano dei pantaloni attillati di jeans bicolore. Davanti erano sbiaditi e dietro le cuciture brillava il blu sui culetti secchi. La calzata a zampa d’elefante finiva sugli stivaletti col tacco. Facevano patatùm tac patatùm tac. I cappotti o i giubbotti che fossero, erano stretti e scuri. Di pelle o di stoffa. Neri o blu come la notte. Strisciavano: strisssc.
Fumavano. Fumavano tanto. Anche le ragazze che passavano allacciate ai corpi di quei capelloni fumavano. Senza sosta. Le loro chiome erano lisce e lunghe o con la permanente. Portavano gli abiti larghi e a penzoloni con frange colorate.
Ridevano sguaiate che io pensavo ma che cos’hai da ridere te? Oppure erano serie serissime e ogni tanto squadravano i profili dei loro maschi. Dubbiose, forse, malinconiche, boh. Sospiravano. Sospiravano tanto e fumavano.
Avevano il culo alto e sodo da fare invidia. Facevano ciack clac con la bocca per via delle cicles.
Fatto sta che ai miei piedi c’erano cicche ovunque: cadaveri di sigarette e gomme masticate.
Mozziconi grigi, bianchi e ocra e qua e là pezze nere appiccicose. Se poco poco eri uno che faceva l’arte povera, potevi incorniciare quel rusco con le fughe delle pietre di marmo antico e così poi ti sembravano opere d’arte.
Dell’arte povera bisogna fare! diceva infatti a dei suoi amici un ragazzo che ogni tanto faceva su e giù verso la Montagnola e mi pareva che mi strizzasse l’occhio.
Che poi l’ho saputo dopo che quelli là che passavano davanti a me e che sputavano le cicche, erano artisti. Saranno stati anche artisti, ma a me sembravano snob persino quando cantavano che anche gli zingari dovevano essere felici.
Allora mica mi immaginavo quello che mi capita adesso.
Mica si accorgevano di me.
Forse prima non ero soltanto chiusa. Ero anche bruttina.
Dicevano poi quelli dell’amministrazione che mi conoscevano un pochino, che mi dovevo aprire, che se non l’avessi fatto io lo avrebbero fatto loro.
E fatelo, gridavo, apritemi! Cosa aspettate? Mi avete chiusa voi, mica mi sono chiusa da sola!
Ma quelli niente. Continuavano a parlare e non si decidevano.
Ridevano: ah ah ah.
Fumavano. E buttavano le cicche in giro. Uno schifo.
Maleducati.
Io proprio non lo sapevo che sarebbe stato così come adesso.


E anche dopo tutte quelle discussioni in consiglio e quegli gne gne ero sempre chiusa.
Anche quando i Jeans erano diventati stretti in fondo e le spalline delle giacche a chiodo e dei cappotti si erano esageratamente allargate. Chi passava da me portava i capelli che sembravano dei funghi prataioli. Che quando quei giovanotti passavano le scarpe facevano sguissc e tac e sguissc. E non mi guardavano. Non facevano mica arte povera. Imbrattavano e basta.
Facevano suonare dei mangianastri a tutto volume. Prima ti facevano sentire quella musica un po’ demenziale e poi, dopo, un po’ tenebrosa che erano tutti vestiti di nero che sembravano dei funerali. Anche le ragazze erano pallide. Con i rossetti scuri. Le matite pesanti sulle palpebre.
Ah, io proprio non lo sapevo che sarebbe stato così come adesso.
Dopo un po’ mi sembravano tutti belli con quei capelli alti e cespugliosi, mi parevano tutti attori del cinema. Cantavano in inglese e fumavano. Tanto, anche loro. E dopo anche le ragazze erano più alte e più belle, con più tette, i capelli corti, i rossetti color prugna e meno vergogne. E fumavano di brutto.



Il ristorante in quel periodo lì funzionava bene, lo vedevo da me che la gente ci veniva. Ma mica solo lì: sembrava che tutti dovessero andare a mangiare fuori.
E fumavano, eh?
Eccome se fumavano. Sarà che mi ha sempre dato fastidio il fumo, sarà che ai miei piedi ci sono sempre state cicche e mozziconi.
E poi imbrattavano.
Stronzi, maleducati e vigliacchi.
Io, davvero, non lo sapevo che poi sarebbe andata così come adesso.
Che poi a un certo punto ero stanca. Mi sentivo sola. È brutto starsene soli.
Una volta di nascoste eravamo tante. In via delle Oche, poi, c’erano le migliori. Che poi le migliori. Saranno state anche brave, ma senza prospettiva. Per dire: quelle di vicolo Cattani non se le filava nessuno. Ma quelle di via Malcontenti o di via Bertiera o di via Oberdan erano segrete. Molto chiuse. Un po’ come me.
Io non ero solo chiusa.
Ero ingenua.
Magari un po’ triste. Ma anche adesso lo sono anche se non si vede.
Ah se avessi saputo come sarebbe andata!


Poi è arrivato uno del comune che aveva la pancia sporgente e parlava con la sigaretta in bocca. Diceva che mi doveva aprire. Ma non tanto, giusto un po’. Che mi avrebbe fatto piacere. Che lui ci sapeva fare.
Sarà stato qualche anno prima del 2000 o non so.
Era il momento del ma sì che va tutto bene, che si può fare tutto. E i ragazzi e le ragazze continuavano a passare e a fumare pensando positivo. Che le cose brutte erano finite e che gli aperitivi erano meglio della cena o del pranzo. Una città da sbevazzo che fa balotta con gli studenti.
Insomma, quando arrivò il panzone avevo giusto bisogno di qualcuno che mi aprisse un po’.
Ero sempre chiusa. Ero sempre stata chiusa. Stavo diventando vecchia. Avevo bisogno di aria e di balotta anch’io.
E gliel’ho data.
Il primo a dirmi grazie è stato proprio il ciccione con quella cartola avvinazzata.
E quelli del ristorante che sono subito corsi ad ammirarmi.
E facevano ohhhh, soccia, ohhhh, sorbole, dài, mentre lui mi dava gli ultimi colpetti.
Poi un ragazzo, il giorno dopo, è passato con la sua mamma. Lei avrà avuto poco più di sessanta anni, lui non lo so, forse trentacinque. La signora dopo un po’ che mi guardava in silenzio disse che una così bella non l’aveva mai vista, neanche a Venezia dove era stata in viaggio di nozze.
Sono sempre le donne a farti i migliori complimenti.
Volete ridere? Mi hanno messo le mutande.
Brutte eh? Vi ricordate? Sembravano le mutande di mia nonna. Di quel color marron legno bruciato. Una mutanda squadrata e bucata sul buco. Dove se ci mettevi il dito mi aprivi. Oppure tiravi una cordicella e poi facevi ohhhh!
Un buco che è l’origine dell’immaginazione, dello sguardo, che neanche quel pittore francese, dài, che lo sapete, lo ha esposto a Parigi, all’Orsay. Che neanche chi apprezza quell’opera può dire che questo buco origine del mondo sia della Parigi minore, come cantava Guccini.
Perché allora, solo vent’anni fa, pochi sapevano di me. E mi sporcavano con disegni osceni.
Io, figuratevi, non lo sapevo che poi sarebbe andata così come adesso.

Il ciccione con la cartola è poi tornato dopo una manciata di inverni.
Ha pensato che fosse il momento di farsi anche quella di Malcontenti e anche l’altra di via Oberdan. Ha esagerato. Troppa aria.
Secondo me era meglio prima. C’ero solo io. C’era più intimità. Più stupore. Più meraviglia.
La sera e la notte passavano dei tipi intabarrati. Parlavano strano, che quelle lingue là non le avevo mai sentite. Erano arrabbiati, litigavano. Si nascondevano. Facevano alalà alalà e gridavano uè uè. E fumavano e non so neanche io cosa fumavano, ma fumavano. Che poi fumavano solo loro perché gli altri e le altre fumavano sempre meno. Dicevano che faceva male, che si muore, che i vestiti puzzano e che per fortuna c’era la legge, che così neanche al ristorante potevi.
Una ragazza diceva che le cicles non è che facciano bene ai denti e per quanto sia poco, lo zucchero c’è.
Che adesso fumavano e masticavano solo gli sfigati.
E anche gli spazzini che sono diventati africani tutti in un botto erano contenti.
Ma alla fine quelli che mi ammiravano erano tutti gentili e rispettosi. Scattavano foto, mi mettevo in posa. Prendevo aria. Ero contenta.
Poi mi hanno anche violata.
Bastardi.
E si sta male che non ve lo dico nemmeno come si sta male quando ti violano.
Ti infrangono, ti divellono.
Mi hanno bruciata.
Me l’hanno infibulata con magri lucchetti d’acciaio, me l’hanno sfondata e me l’hanno strappata, perfino.
Io non immaginavo che l’avrebbero fatto.
E non lo sapevo che sarebbe finita così.
Io non mi aspettavo che avrebbero fatto la fila per me.
Adesso, da quando mi hanno aperta, saranno, boh, dieci anni che mi guardano proprio tutti e vengono anche dall’America per vedermi e dicono ohhh, biutifùl!
Fanno un gran vociare sotto i portici e in mezzo alla strada. Le guide col fischietto, con gli ombrelli colorati. Gente con i calzini che sbucano dai sandali, canottiere e calzoncini, paltò e poncho. Ragazzotti che dicono parolacce al loro smartphone. Gruppi vacanze eccitati dal buco.
E sono gli ohhhh di tutte le lingue del mondo che mi leccano felici appena arriva il loro turno.
Adesso fumano meno. Anzi. Per niente. Succhiano solo delle pipe elettroniche.
Di mozziconi non ne vedo più da un pezzo, nemmeno cicles.
Il fumo uccide, le cicles anche.
Adesso mi vedete, eh? Vi piaccio, eh?
Coglioni!
E pensare che sono sempre stata qua.
Solo che adesso sono sulle Guide, sfacciata, aperta, apertissima, dai venite, fate ben la fila! Una fila lunghissima, interminabile che arriva quasi al mercato tutta per me. Mi vedono tutti.
Turisti del buco!
Per un buco glabro sul mio odoroso canale.
E a turno mi scattano un pornografico selfie.
Un selfie d’amore, dite voi. Sarà!
Che tristezza vedervi, e che tenerezza, però.
E non lo sapevo che sarebbe finita così.
Con una toccata e fuga.

Riferimenti:
Vedi anche:
- La stravagante storia delle vacanze al mare degli italiani di Enza Negroni
About Author / Maurizio Matrone
Coach, scrittore e consulente per la formazione sui temi della narrativa d’impresa.