Il Cimena: dove il cinema (non) arriva
Dal 2018 il progetto “Cimena: dove il cinema non arriva”, ideato da Elena Xerri e Marco Bassano a Bologna, porta la magia e l’aspetto pedagogico del cinema in diverse strutture socio-assistenziali e negli ospedali, concentrandosi in particolar modo sui bambini.

Raccontaci chi siete e come nasce il progetto del Cimena.
Io e Marco ci siamo formati nel mondo del cinema, lui come direttore della fotografia, io prima in produzione, poi come aiuto regia. Vivevamo a Milano, ma presto ci siamo accorti che quella città ci stava un po’ stretta a livello di socialità. Abbiamo deciso quindi di spostarci a Bologna.
A Bologna ho cercato un’attività che potesse unire le mie competenze nel mondo del cinema e la mia formazione universitaria – Scienze Politiche con indirizzo sociale – concentrandomi su progetti culturali con un impegno sociale. È nata così l’idea di un “cinema su ruote”, la cui peculiarità era appunto quella di non avere una sede fissa, ma di essere mobile, in modo da riuscire raggiungere pubblici e contesti diversi.
Come mai “Cimena”?
Volevamo un nome accattivante, che raccontasse quello che facevamo senza essere ridondante. Mio figlio Elio lo ripete sempre “se non ci fossimo stati noi il Cimena a quest’ora non esisterebbe!”. Infatti la folgorazione l’ho avuta quando un giorno, sbagliando, mi disse “Ma il cimena…”. “Cimena” era semplice, la parola più giusta e più sbagliata al tempo stesso, un errore che tutti i bambini fanno e chiunque di noi aveva fatto. Un termine che è un po’ un diritto di tutti. Per noi era importante il nesso con l’infanzia, sia perché il nostro primo target sono proprio i reparti di pediatria degli ospedali, ma anche perché il cinema è una magia che ci riporta tutti a una dimensione più infantile.
Inizialmente a chi era rivolto questo progetto?
Il nostro primo pensiero è andato agli ospedali e a coloro che sono gli ultimi nella catena ospedaliera: i bambini. Infatti se gli adulti hanno diversi modi e possibilità per impiegare il loro tempo, i bambini in quel contesto spesso non sanno proprio cosa fare.
Oltretutto i bambini vivono il periodo di malattia come qualcosa che ancora non capiscono, mentre andare al cinema li riporta alla loro quotidianità al di fuori dell’ospedale.
Ricordo che in uno degli ospedali dove siamo andati le prime volte, una bambina in carrozzina, guardando la macchina dei pop corn e tutto l’allestimento, esclamò “Mamma io pensavo che fossimo in ospedale, invece siamo al cinema!”. Questo era quello che volevamo, cioè che si potesse identificare lo stesso posto con due accezioni diverse, snaturandolo con un ricordo piacevole.
Poi alcune richieste sono arrivate, altre ce le siamo cercate, insomma la rete si è ampliata.
Per quanto riguarda il Centro di Accoglienza per minori del Villaggio del Fanciullo, fummo messi in contatto dalla nostra babysitter del tempo con l’educatrice di riferimento, una figura che si rivelò molto importante per coadiuvare il progetto. Infatti un elemento fondamentale per la sua riuscita è proprio la presenza di un soggetto all’interno della struttura che può fare da traino e da supporto logistico.
Nel Centro di Accoglienza i ragazzi passavano tutta la giornata o a scuola o facendo attività lavorativa, mentre il resto del tempo lo passavano in isolamento, o magari incontrandosi in piccoli gruppi. Riunirli tutti per la visione di un film non era qualcosa di così immediato e di sicuro successo. Alla fine però abbiamo lavorato al Villaggio del Fanciullo per due anni, fino alla pandemia.
Ci ha contattato anche l’Ospedale Rizzoli, dove abbiamo organizzato i nostri cicli di proiezioni sia per il reparto di Ortopedia Pediatrica che per quello di protesi dell’anca, due target di età decisamente diversi!
Successivamente Gianluca Farfaneti, psicologo e psicoterapeuta del Sert di Cesena (centro diurno per tossicodipendenze e ludopatie) si mostrò interessato a portare il Cimena nella sua struttura. Grazie al Sert e a Farfaneti abbiamo collaborato anche con il Reparto di Pediatria di Ravenna e con il Reparto Psichiatria dell’Ospedale di Cesena. Quest’ultimo è stato il posto più difficile in cui lavorare: bastava la presenza di un solo caso non gestibile perché nessuno potesse accedere alla proiezione.

Come gestite l’allestimento della sala?
Siamo partiti allestendo la sala giochi dell’ospedale: abbiamo spostato tutto ciò che c’era negli angoli, abbiamo portato fuori i divanetti e disposto le sedie affinché sembrassero proprio le poltrone del cinema, mettevamo poi i teli, il velluto all’entrata della sala e la macchina dei pop corn. La sensazione era proprio quella di entrare in una sala cinematografica e allo stesso tempo c’era quel senso di straniamento che ti faceva dire “Aspetta ma questo non è lo stesso posto che ho visto prima!”.
Il setting per noi è sempre stato un elemento fondamentale, il nostro marchio di fabbrica, sia l’ambientazione che l’aspetto tecnico. La qualità video e audio era massima. Che fosse una sala da due pazienti o da cinquanta noi utilizzavamo il 5.1, in modo da ricreare quella sensazione, tipica del cinema, in cui il suono lo senti dietro, davanti e di fianco. Io invece ci tenevo ad avere la macchina dei pop corn che diffondeva quell’odore che fa subito pensare alla visione di un film e che i bicchieri in cui venivano serviti fossero tassativamente quelli a righe bianche e rosse di cartone.
Come avete scelto i titoli da proporre?
Inizialmente cercavo quei titoli che non avevo mai sentito, uscendo quindi dal circuito dei soliti cartoni di origine americana: ho trovato così tanti contenuti validi e interessanti (ma difficilmente reperibili, ho infatti dovuto comprare una marea di dvd!) provenienti dal nord Europa, dalla Francia e dalla Norvegia.
In ospedale determinare il target di età è sempre stato molto difficile, perché può andare dai 4 agli 8-10 anni, quindi abbiamo scelto dei cartoni animati che, a seconda dell’età dello spettatore, offrissero elementi di ispirazione diversi. Non è stato sempre facile e non sempre abbiamo azzeccato, ma per noi è stato importante azzardare.
Sono proprio gli azzardi infatti quelli che ci hanno dato maggiore soddisfazione, come quando al Centro di Accoglienza volevano vedere Capitan America e altri titoli simili, e noi gli abbiamo proposto Ogni cosa è illuminata, un film abbastanza difficile, eppure sono rimasti tutti a bocca aperta.
Scegliere il film più leggero e più “facile” per me era un po’ come svalutare l’esperienza, come quando a un bambino non parli della malattia o di cose brutte; a volte invece trattare certi temi li aiuta a immedesimarsi in ciò che vedono, a sentirsi meno soli. È per questo che ci siamo concentrati molto sulla ricerca di temi che non fossero scontati o banali. Oltre a dare un’opportunità di conoscenza in più, ciò che a noi premeva era promuovere la forma di comunicazione che è il cinema.





Quali altri progetti collaterali sono nati da questa esperienza?
La pandemia ci ha lasciato fuori dai luoghi in cui realizzavamo il Cimena e la nostra più grande frustrazione era quella di non trovare un modo per continuare a stare vicino a tutte quelle persone che avevamo conosciuto, senza di fatto poterle incontrare. Abbiamo allora pensato di dare ai piccoli pazienti la possibilità di raccontare loro stessi delle storie.
Nasce così Peripezie: portavamo in ospedale questi kit individuali con all’interno carte narrative, illustrate dal Collettivo Franco, attraverso cui ogni bambino scriveva la sua storia. L’ambientazione scelta era lo Spazio perché ci sembrava un’immagine universale, né maschile né femminile: tutti noi abbiamo alzato almeno una volta lo sguardo immaginando ciò che c’è là fuori.
Intendevamo fondere tutti i racconti in un’unica storia, per poi tradurla in un libro corredato dalle varie citazioni dei bambini-autori. Grazie ai ragazzi del Fantateatro il libro sarebbe stato poi sceneggiato, interpretato e ripreso in video e i bambini avrebbero potuto affermare “Ho scritto un film e domani vado a vederlo al cinema!”.
Le cose purtroppo si sono un po’ rallentate, ma quest’estate abbiamo fatto girare il progetto al Dynamo Camp e alle Case di Transizione di Bologna. Adesso siamo in fase di stesura del libro.
Quando, durante la pandemia, fummo invitati a organizzare un cinema estivo per i bambini, abbiamo ideato il progetto Il Cimena in scatola. Il problema maggiore ovviamente era far rimanere i bimbi al proprio posto: abbiamo pensato ai cerchi, ai cuscini, per poi realizzare che la maniera migliore e più semplice fosse… chiuderli in una scatola! Abbiamo così realizzato delle macchinine con degli scatoloni e ogni bambino avendo la sua macchinina con il suo numerino non si muoveva più. Alla fine sono due o tre anni che in estate realizziamo due eventi del Cimena in scatola con il nostro gigante gonfiabile, lo schermo da 8 metri, che abbiamo avuto modo di usare anche in occasione della rassegna Bologna Estate al Centro Barca e al Giardino “Otello Colli”.
Quali sono gli obbiettivi futuri dell’associazione?
Il punto è che questo fermo ci ha stoppato.
La difficoltà ovviamente sta nel trovare dei finanziamenti per sostenere il progetto: siamo partiti con un crowdfunding su Idea Ginger per permetterci di comprare l’attrezzatura, poi abbiamo fatto una raccolta fondi con Eppela, e infine l’aiuto del nostro grande sponsor, Gucci, che ci ha dato una mano sia sul Cimena che su Peripezie.
Inoltre, tornare negli ospedali è ancora difficile e ci sono molte limitazioni, ma l’intenzione resta sempre quella di tornare alla nostra attività principale, continuando a portare il Cimena anche in contesti che non siano esclusivamente ospedalieri, come i centri di accoglienza, di assistenza e nei centri per anziani.


Vedi anche:
- La farfalla di ferro e l’esperienza di Cinevasioni di Claudia Rosati
Note:
Le foto presenti nell’articolo sono di Nicoletta Valdisteno.

About Author / Claudia Rosati
Laureata in Antropologia e appassionata di cinema documentario, lavora nella realizzazione di progetti audiovisivi.