Tra gli effetti dell’alluvione che ha colpito l’Emilia-Romagna nel maggio scorso ci sono anche i gravi danni prodotti al patrimonio culturale: musei, archivi, parchi e giardini, monumenti e siti archeologici, palazzi e chiese sono stati allagati.

Nelle biblioteche, oltre alle cinquecentine e ai libri rari e preziosi, sono stati sommersi anche un gran numero di libri che a confronto con quelli preziosi possiamo definire comuni, ma che erano preziosissimi per le migliaia di utenti che li consultavano quotidianamente.

Giovanni Zaffagnini, fotografo di Fusignano, qualche giorno dopo l’alluvione ha pensato di andare a vedere lo stato in cui versavano la Biblioteca Comunale Manfrediana di Faenza, la Biblioteca Comunale Fabrizio Trisi e la Libreria Alfabeta di Lugo e di documentarlo con le sue immagini. Con ventidue delle quali ha realizzato una mostra nel foyer del MAMBo, I libri e il fango nella Romagna allagata (dall’8 agosto al 24 settembre scorso) e un libro dal titolo I libri e il fango (Danilo Montanari Editore, Ravenna).

Vediamo i libri, già sommersi e ora ammassati in un angolo della stanza o in una strada, in attesa di essere smaltiti come rifiuti, deformati, irriconoscibili, perduti per sempre per i loro lettori, ma che tuttavia esibiscono ancora qualche segno di ciò che erano: i titoli sbiaditi o del tutto cancellati, i loghi editoriali, i timbri di biblioteche, le indicazioni di prezzo.

Zaffagnini toglie dalle inquadrature quanto più possibile. Va dritto all’oggetto. Trascura e cancella sia il contesto sia lo sfondo, e così facendo elimina ciò che potrebbe sviare l’attenzione dell’osservatore. Vuole togliere dalle sue immagini ogni rischio di retorica – che è sempre in agguato quando ci si avvicina alle catastrofi – per avvicinarsi alla precisione.

Non è una novità, questo suo modo di agire: per lui è sempre stato necessario vedere, senza disturbi o equivoci, solo e direttamente ciò che è essenziale vedere. Zaffagnini non fotografa la realtà, nel senso che ha questa parola nella fotografia di reportage, dove per realtà si vuole intendere quello che si vede, senza nessuna selezione, senza priorità. Zaffagnini le sue priorità le dà, e il modo migliore per darle è proprio quello di de-contestualizzare. Il contesto spesso è fuorviante, pertanto è meglio farne a meno.

E così i libri infangati ci appaiono in primissimo piano, e al di là dei loro confini materiali non c’è nulla, solo uno sfondo bianco. Pare l’antitesi della foto di paesaggio: non c’è un paesaggio, c’è un oggetto, e la sua identità è definita solo da se stesso, non dalle sue relazioni con le altre cose. Eppure tutto è estremamente esplicito: ciò che si vede è la conseguenza di qualcosa di catastrofico. Dove? Quando? La mancanza di riferimenti sul dove e sul quando rende le immagini valide ovunque e sempre, universali, concettuali. Il fatto è soverchiato dal concetto, è descritto non in quanto fatto ma nelle sue disastrose conseguenze.

Questa è la visione – direi la visione etica – di Zaffagnini, nel suo rapporto con la società contemporanea. Se siamo d’accordo che nella società contemporanea si è progressivamente indebolita la credenza in verità universali, i valori dell’etica si sono avvicinati all’antropologia culturale, sono molto spesso tratti dalle scienze umane. Zaffagnini è, e soprattutto è stato, nel corso della sua carriera di fotografo, un cultore appassionato di tradizioni. Non parlo di etica come teoria normativa dei comportamenti, ma come sistema di opinioni, tratte dall’esperienza della vita in mezzo agli altri, non da credenze predeterminate o trasmesse con l’educazione; e tratte, molto, anche dall’arte e dalla letteratura – gli autori preferiti di Zaffagnini sono Fernando Pessoa, Dino Campana e gli altri Sovversivi ai quali ha dedicato nel 2021 un libro edito da Pequod: Joyce, Dante, Calvino, Pasolini, Celati, Rimbaud, Sepulveda. Ed ecco che si ritorna all’amore per i libri. Dunque l’alluvione è anche un impoverimento dell’etica, in quanto perdita di libri.

Mi vengono in mente – all’opposto di queste del 2023 – certe fotografie dell’alluvione di Firenze, immagini del lontano 1966 che sono dentro di me. In quelle foto, comparse sui giornali, c’era molto di tutto ciò che nelle immagini di Zaffagnini non c’è: i volontari, le strade con le auto coperte di melma, le strade divenute fiumi e le piazze laghi, gli angeli del fango. Abbiamo rivisto tutto anche questa volta, le stesse immagini, in televisione, e dopo che l’acqua si era ritirata abbiamo visto le porte aperte sulle case e il fango sui pavimenti, i mobili distrutti e accatastati. Invece Zaffagnini esclude tutto, tranne il libro e il fango. Titolo molto pertinente!

Possiamo ricordare molti altri lavori di Zaffagnini, anche di alcuni decenni fa, dove la realtà si vede solo a barlumi, ma non per questo è meno presente. Le immagini sono allusive, non tutto è visibile con chiarezza; magari per via della nebbia, come accade di frequente nella serie Tecla (1989-92), omaggio alle città invisibili di Italo Calvino: uno “strano equilibrio tra apparizione e sparizione del paesaggio”, così si espresse Roberta Valtorta. Altre volte la causa è la notte; oppure dipende dalla strettissima vicinanza al soggetto, come è per i muri di Schegge, dove si vedono ancora i fori dei proiettili della seconda guerra mondiale; o nel caso dei fiumi dell’appennino tosco-romagnolo, dove compaiono le schiume multicolori nell’acqua trasparente o i muschi variegati sui sassi immersi nel fondo.

La poetica espressiva di Zaffagnini è less is more, come insegnava Mies van der Rohe. In certi suoi lavori è quasi invisibile perfino l’oggetto, non solo lo sfondo. Prendiamo SIP e Bus (1994-2007): paesaggi urbani sfuocati, visti attraverso i vetri sporchi delle cabine del telefono o degli autobus. La foto però comunica molto bene quello che vuole comunicare: la sciatteria, la ripetitiva banalità di certi ambiti urbani. Chi può dire che non è vero? Chi può negare che questa sia un’esperienza comune a tutti noi? Chi può dire che non gli è capitato di vedere proprio in questo modo i paesaggi esterni ai bus e alle cabine della società dei telefoni (che allora si chiamava SIP, è bene precisarlo, visto che è cessata nel 1994)? Dunque, anche in questo caso Zaffagnini non inventa, ma registra, prende nota. Osserva e trascrive. Senza farsi prendere la mano – né l’occhio, e tanto meno il cervello – da ciò che l’abitudine vorrebbe fargli vedere, trasformando la visione in prevenzione.

E dunque, Zaffagnini è un fotografo di paesaggio. Non di quello che ci piacerebbe vedere, bensì di quello che c’è. Mille volte ha fotografato il paesaggio – soprattutto quello della sua regione, che così diventa caso esemplare per tutti – e le sue apparenze.

Prendiamo Accadueo un lavoro commissionato dall’Istituto Beni Culturali regionale, che fu edito nel 2018 da Danilo Montanari e faceva parte di un progetto con il quale si descrivono le peculiarità della Romagna Toscana, un territorio che dal ‘500 ai primi decenni del ‘900 è stato toscano e tale resta nell’architettura, nel cibo, nell’eloquio. Siccome non è ancora riuscito a fotografare le inflessioni dialettali, Zaffagnini sceglie qui di fornire una serie di ritratti – così si potrebbero chiamare – di quei fiumi: il Lamone, il Montone, il Rabbi.

Quando si dedicò alla descrizione della città-Po (2007), sempre su richiesta dell’IBC, l’obiettivo era quello di raccontare nei suoi diversi aspetti la città che si raccoglie intorno alle sponde del Po, verso le quali gravitano circa un milione di persone, la più grande città della bassa pianura padana. Restano sì le vecchie corti e cascine rurali, i caseifici, i lavorieri, i casoni e le boarie, ma la città Zaffagnini la trovò di più nei mercati ittici, nei lidi, negli ex zuccherifici, nei cantieri navali ancora in attività o anche nei tanti musei etnografici dove i vecchi attrezzi sono lasciati per sempre alla loro certificata inutilità.

Ho invitato Zaffagnini a fotografare la mia casa terremotata nelle Marche, nel 2017, e Giovanni ha scelto di mostrare il silenzio, il vuoto, due condizioni molto tipiche del post-terremoto, ma ben difficili da fotografare. Non gli interessavano i cumuli di macerie, non il fragore dei crolli. Come sempre, è venuto sui luoghi molto dopo l’evento catastrofico, ha aspettato. L’attesa è una miracolosa capacità che gli invidio. Attende che la temperatura diventi quella adatta a essere riprodotta fotograficamente.

Venne nella casa terremotata con un altro amico fotografo, Fabio Mantovani. Una casa che potrebbe essere la nostra, scrisse Giovanni. Scelse il titolo, 6.5 una casa. Nel titolo e nelle immagini, come sempre, c’è sintesi, allusione, desiderio di restare in apparente superficie; ma sfogliando il libro che fu realizzato da Danilo Montanari si prova pieno il sentimento della quantità, della profondità, del rumore sottostante.

Altre volte – forse non molto spesso – Zaffagnini ha fotografato l’architettura. Per esempio, su incarico e con la guida di quel profondo conoscitore di architettura che fu Vittorio Savi, ha ritratto alcuni edifici di Marcello Piacentini e Carlo Savonuzzi a Ferrara. Ma l’architettura per Zaffagnini, più che manufatto formale, esito di progetto, dato tecnologico, è casa o fabbrica, contenitore di uomini, bisogni, attività, pensieri.

Ha fotografato più e più volte le campagne, gli alberi e le erbe della sua Romagna – e dell’altrettanto amato Trentino; qui si è avvicinato così tanto ai mantelli delle mucche che ruminano negli alpeggi, da farli parere delle carte geografiche di mondi sconosciuti e remotissimi. Dopo Herbarium (2000-2002) ha perfino deciso di coltivare in un orto vicino a un casolare di campagna alcune piante selvatiche commestibili. Lavorando ha sempre bene in testa una frase che ha posto in epigrafe a un suo libro, un pensiero di Robert Adams, fotografo americano che ama molto e con il quale intrattiene una corrispondenza epistolare – cartacea, è naturale: “Nell’arte del paesaggio è sempre presente un aspetto soggettivo, qualcosa nell’immagine che ci parla tanto di colui che è dietro l’apparecchio quanto di ciò che gli sta davanti”.

Tutto questo – case, fabbriche, alberi, libri infangati, erbe e sovversivi, fiumi e case terremotate – è paesaggio. Perché tutto è paesaggio, come intitolammo una mostra che facemmo insieme qualche anno fa: le schegge lasciate dalla guerra sui muri, i bunker dell’ultima guerra rimasti nascosti sulle spiagge e perfino in mezzo alle case, e gli odori. Ha fotografato perfino gli odori (Per grazia ricevuta), quelli delle muffe, degli orinatoi, delle fogne, degli scoli. Ha fotografato le macchine agricole nei campi come se fossero enormi insetti, e i pali della luce come smisurati steli di erbe selvatiche (Lucciole per lanterne, un lunghissimo lavoro fatto tra il 1992 e il 2015), e sempre con l’idea di rendere interessante ciò che non lo è, facendo sfoggio di una specie particolare di ironica sfrontatezza dello sguardo. Guida pratica alle apparenze, così chiama gli esiti del suo lavoro.

 

Nota: Tutte le foto sono di Giovanni Zaffagnini, e sono state sposte nella  mostra “I libri e il fango”, MamBO agosto-settembre 2023