Quel deserto che attraversavamo e che ora abitiamo
Gianni Celati fu tra i promotori, nel 1986, di un osservatorio multidisciplinare – fotografia e scrittura – sull’impoverimento del paesaggio umano (del territorio e della società in cui vivono gli uomini) che produsse i testi e le immagini di un bel libro, Traversate del deserto, edito nel 1986 per cura di misteriosi figli del deserto, tra i quali era anche Giovanni Zaffagnini. Memore dell’impresa di allora, nel 2016, a trent’anni di distanza, Zaffagnini, fotografo di Fusignano che più volte ha collaborato con l’IBC (Istituto Beni Culturali dell’Emilia-Romagna), ha ideato e coordinato l’organizzazione di una replica di quelle osservazioni tematiche, chiedendo ad alcuni giovani autori scelti attraverso una rigorosa selezione in ambito internazionale (italiani, cinesi, svizzeri, americani, francesi), di esprimere il loro punto di vista sulla desertificazione ambientale e culturale.
Da quell’invito nacquero una mostra al Museo San Rocco di Fusignano (RA), e il volume Abitare il deserto, a cura di Giovanni Zaffagnini con la collaborazione di Silvia Loddo e Cesare Fabbri, edito da Osservatorio fotografico (Ravenna).


Una prima notazione: nel 1986 si poteva ancora pensare di dover soltanto attraversare il deserto, oggi lo abitiamo più o meno tutti. Trent’anni fa c’erano ancora molte aree di libertà, di vivibilità, abbastanza consistenti da costituire il rifugio di alcuni milioni di persone. Probabilmente molti altri abitavano già il deserto, rendendosene poco o per nulla conto. Ma erano una minoranza. Oggi la minoranza è diventata maggioranza, il deserto non è più solo ciò che ci circonda ma ciò che abitiamo.
La caratteristica più terribile del deserto di cui parliamo la spiegava molto bene il sociologo francese Gilles Lipovetsky nel libro del 1986. E cioè, il fatto che non ci si doveva salvare solo da catastrofi ambientali più o meno gravi e da urbanizzazioni che ci portano via parti sempre più estese di territorio, ma anche e soprattutto dalla desertificazione culturale, antropologica, dalla morte dei sentimenti di una umanità che senza quelli non può sopravvivere come tale – diventa una specie diversa e peggiore – o non può sopravvivere tout-court e si autodistrugge. Lipovetsky elencava lo sradicamento delle popolazioni rurali e insieme la desolazione interiore di Antonioni o i personaggi morti-vivi di Beckett, i genocidi e gli etnocidi, Hiroshima e i milioni di tonnellate di bombe riversate sul Vietnam. Come si spiega, si chiedeva Lipovetsky, che nella stessa epoca che venera l’accumulazione capitalistica si sia tanto attratti dal nulla esistenziale del nostro habitat? Il troppo pieno e il troppo vuoto così vicini, così necessari l’uno all’altro?
Il commento visivo di queste riflessioni, scritte da autori come Baudrillard e Scabia, Agamben e Celati, fu allora affidato a giovani e ancora non notissimi fotografi, come Olivo Barbieri, Vittore Fossati, Guido Guidi, Luigi Ghirri e altri. Con risultati assai efficaci: dalla qualsiasità di Guidi, a visioni più ansiogene ad opera di Barbieri o soffuse di malinconia o addirittura di rimpianto, come alcune di Ghirri.


Tornando oggi sul tema, Zaffagnini lo precisa con una citazione di Antonio Tabucchi da Viaggi e altri viaggi: “Un luogo non è mai solo quel luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi… Dipende da come leggiamo quel luogo,… se siamo allegri o malinconici, euforici o disforici, giovani o vecchi, se ci sentiamo bene o se abbiamo il mal di pancia. Dipende da chi siamo nel momento in cui arriviamo in quel luogo.”
E così, per rintracciare un punto medio di interpretazione nel lavoro di molti, ha invitato nove narratori e nove fotografi under 35 e ha chiesto loro di mostrare dove e come e quando si incontrano tra loro il deserto della mente e il deserto visibile. E conclude – lui, Zaffagnini, guardando come concludono il loro lavoro i suoi diciotto invitati – con un pensiero che è una sua convinzione profonda, e che già altre volte ha esposto e difeso: “Il degrado diventa il punto di partenza per una riconciliazione col mondo circostante attraverso uno sguardo rinnovato e costruttivo, esente da intenti consolatori o di facile denuncia. Uno sguardo che riconosce forme e spazi dove trovare nuovi spunti per correggere e migliorare l’esistente e orientare le scelte future. Non si cura il presente tornando al passato. Possiamo arginare il deserto conoscendo il suo volto, senza girare lo sguardo dall’altra parte sperando che qualcuno provveda.” E cita un altro autore amato, Robert Walser, “raffinato poeta-camminatore che sapeva osservare le cose dalla giusta distanza con consapevole candore: «Mi fermai affascinato da quanto vi era di bello in questa assenza di bellezza, incantato dalle speranze in mezzo a tanta disperazione»”. Nonostante tutto, c’è ancora tanta bellezza da preservare, dice Zaffagnini, e questo vogliono dirci anche gli autori. Come ce lo dicono?

La declinazione del tema “abitare il deserto” fatta dai fotografi (Nicola Baldazzi, Davide Baldrati, Marina Caneve, Francesca Gardini, Richard Max Gavrich, Massao Mascaro, Domingo Milella, Mattia Parodi, Xiaoxiao Xu) sembra molto larga. L’assenza di didascalie, abitudine inveterata dei fotografi contemporanei, rende a volte difficile capire dove sono con la loro fotocamera e dunque che cosa esattamente vogliono dirci con le loro immagini. Convinti che la didascalia sia qualcosa che impoverisce il messaggio fotografico e ne svilisce l’autonoma capacità comunicativa, ci offrono vedute del deserto mute, che consistono in raccordi stradali, case più o meno qualunque, formazioni geologiche fuori dell’ordinario e ghiacciai, vecchi camion, recinzioni, cantieri edili, disordini urbani di vario genere.

Cerchiamo allora le corrispondenze di tutto ciò negli scritti, e troviamo molte conferme e anche alcune spiegazioni. Le case abitate da piante infestanti che si avvolgono sui muri franati (Franca Mancinelli), i tinelli con mozziconi spenti e i ladri negli appartamenti (Maddalena Lotter) ci portano proprio là dove pensavamo volesse portarci il titolo della mostra e del libro. E così i paesaggi urbani pieni di lavanderie, bancomat, coltelli nei vicoli e mari mediterranei paragonati a perdite idrauliche estese e verdognole (Orso Jacopo Tosco) e i giardini dismessi, le altalene vuote di bambini, le serre svetrate e le saracinesche (Yari Bernasconi). Ed è molto forte la visione di case che sudano cemento in un mondo di piante perpetue, forse metalliche, che si potano con le frese e non si annaffiano ma si lubrificano (Jacopo Narros); vicine ad altre che vivono di anidride carbonica, e altre ancora che sono solo immaginate nella nostra testa e che dunque si adattano ad ogni clima, mentre quelle vere sono già morte quasi tutte. Chi abita queste città “non distende quasi mai lo sguardo” (Jacopo Ramonda) e cammina con gli occhi a terra, “misero prototipo-campione| di umanità| il mio status corrente di innocuo bombo radiocomandato” (Bernardo Pacini). I pendolari che viaggiano su treni regionali (un topos della contemporaneità…) vivono una solitudine che non è percepita “unicamente come stato d’animo […] ma come un luogo: un deserto in costante espansione.” Parliamo di gente che non sa nemmeno più “dov’è l’Italia.| La immaginano vicino alla Grecia.| Attraversata dal Rio de la Plata.| Al confine con la Cina.” (Damiano Sinfonico). E anche il deserto dell’Italia di provincia è agghiacciante. Ci vive un turnista non assunto ma fiaccato dal proprio lavoro straordinario, che recrimina sulla sua scelta di averla lasciata andar via, lei, in Danimarca. Recrimina, lavora e si rende conto che in quel deserto in cui abita, “su questa terra qui, a me non mi resta altro che aspettare.” (Luigi Filippelli).

Yari Bernasconi
Cinque luoghi dalla città fantasma
La strada principale
Dopo tanto rumore, non si sente più nulla
di questa strada che s’allunga e non finisce.
Le file di edifici lasciano spazio a brevi vuoti
o ad arterie accennate, poi tornano le case
coi giardini dismessi, qualche altalena,
i locali del commercio e dello svago andato.
Le vertigini dell’industria, del potere,
dei monumenti. Dietro, i cassonetti sono covi
di gazze e di cornacchie che si spartiscono
la spazzatura.
Posso chiedere e gridare per finta: dove sono
tutti quanti? Lontani, ormai lo so. Ci siete
e non ci siete. Risalite gli anni a confondervi
con poche immagini.
*
La bottega di un falegname
L’odore d’albero è scomparso, uscito
dalla finestra insieme ai suoni del tornio.
Riconosco la sega, il martello, la lima
sotto la polvere di segatura. Sembra che prima,
dalla strada, nessuno avesse mai sentito una voce,
una parola: solo la radio e le sue canzonette.
2
Sulla mensola buia, di fianco al quadro
senza colore, resta ancora da regalare
un ultimo fiore di legno.
*
Il giardino botanico
Tra le serre svetrate dove fischiano i giorni
le piante più robuste si attorcigliano
alle strutture di metallo, salgono
verso il cielo lasciando a terra i vasi
sfondati. Ogni spazio custodisce una foglia,
una spina e un insetto.
*
L’edicola
La saracinesca ha ceduto. Le riviste e i giornali
non stanno più nelle scansie, ma occupano
il pavimento alla rinfusa. Appeso al muro
c’è uno specchio accecante, dove forse
l’edicolante pettinava i suoi baffi. Sul bancone
sempre più giallo è il libro da colorare, secchi
i pennarelli. La carta stampata ha iniziato
a sbriciolarsi sotto il peso della luce e sbiadisce
fino al niente. Si cancella il grassetto dei titoli.
Cronache: INVESTE UNA RAGAZZA E SCAPPA,
LA CREDE MORTA E SI BUTTA SOTTO UN TRENO.
Spettacoli: LA STORIA DEL VERO CAPITAN FINDUS:

Bernardo Pacini
Il quadricottero
I
Sono giorni che cabro con sempre più naturalezza
planando radente alle mensole e alle funi elettriche
del treno tra Zambra e Il Neto, enfatizzando i guizzi
del moto rotatorio / fibrilla la mia mente
nel sentire sul telaio il delirio del vento di Firenze
ma come si chiama il vento di Firenze, quanti
sono gli strati di vernice di quel murales, chissà
come starebbe una camicia di lino addosso al
ragazzo in cui m’imbatto ogni mattina, assiemato al
glomere di un bomber dei Lakers, presente al suo salasso
singolare e deserto come la stazione a cui aspetta il treno
(del resto non ho potuto mai stilare un referto
[registrare i dettagli del suo volto
perché non sono stato ancora / plottato su quella rotta)
questo penso, mentre sento dilibrare
già cedere
il rotore in alto a destra
il ronzio che si fa lento e insostenibile
mentre itero la solita discesa lenta
imito nella mente la possibilità che non ho
di riportare almeno un danno.
II
E se di notte devo ricostruirti, prezioso mio panorama
se devo ricomporti byte per byte nella memoria
della mia videocamera
allora immagino uno scrupolo nell’Arno
da cui affiora una bestia che usmando artiglia
isterica un tubo di plastica
casuale, un tubo santo con cui felice
cerimonia il timbro del tramonto
il flocking (l’ordito, tu diresti) degli storni
sono io questo tuo posto assurdo e senza storia
sono io, pezzo di modellismo spento
aggeggio di livello amatoriale
imbussolato in un gimbal
io che aspetto nella gorgia della mente
che si carichi del tutto il mio Li-Po
(se poi mi schianto il mio cuore viene sostituito
[con un pezzo al top della gamma).
III
Io, drone alto levato
sono un prototipo-campione
di umanità
il mio status corrente di innocuo bombo radiocomandato
per vezzo ecologico dirottato oggi in città
verso il Polmone Verde Sperimentale di Prato
delinea per me ora un orizzonte d’attesa
di 30 metri altezza massima e raggio limitato
credo sia tutta una questione
di bassa autonomia
la batteria che cala troppo presto
il falso peso di una pietà virtuale dello sguardo
che quanto più registra tanto meno guarda
eppure ammetterai / che tale elevazione / è pura trascendenza
per esempio, chi e cosa potrà impedirmi
di prendere e partire per un lungo viaggio
… vedere in HD le stanze vaticane
l’Alhambra, la casa etrusca del lucumone
il mistero delle grandi rocce del Grand Teton?

Damiano Sinfonico
Inutile il navigatore
Nebbia sulla strada del ritorno.
Una, due macchine, un muro bianco.
La vallata ricoperta.
Siamo scesi piano.
I tornanti ripetevano lo stesso moto.
Poi le indicazioni imprecise.
Svoltate dopo la casa con le persiane rosse.
Attraversate il ponticello e proseguite.
Ci siamo persi a un certo punto.
Nessuno sapeva l’indirizzo.
Inutile il navigatore.
Abbiamo chiesto a un passante.
Ci ha detto di tornare indietro.
Di percorrere altre strade.
Abbiamo seguito i suoi consigli.
Una canzone gracchiava alla radio.
Ci ammoniva il suo ritornello.
Andate piano, rallentate, ricominciate.
*
I miei studenti non sanno dov’è l’Italia.
La immaginano vicino alla Grecia.
Attraversata dal Rio de la Plata.
Al confine con la Cina.
In un luogo lontano.
Come se non fosse reale.
Non mi scompongo.
Li lascio credere che sia là dov’è.
Percorsa da venti di sabbia.
Come un paese bianco dell’Andalusia.
Sospeso fra colline sempre uguali.
*
Il rumore di posate alle finestre.
Gli autobus in giro per l’ultima corsa.
I lampioni accesi da poco.
I cassoni colmi di sacchetti.
La sera non è un idillio.
In cucina irrompono i rumori dei vicini.
La radio rimescola le notizie.
Impercettibilmente la luce si ritira.
Come lo splendore da una civiltà.
*

Note:
- ABITARE IL DESERTO
a cura di Giovanni Zaffagnini
con la collaborazione di Silvia Loddo e Cesare Fabbri
Osservatorio Fotografico, Ravenna, 2016
Pubblicato in occasione del 30° anniversario dalle TRAVERSATE DEL DESERTO a cura dei Figli del deserto di Fusignano e condotte nel 1986 da Gianni Celati. - Su richiesta dell’autore viene qui pubblicata la versione definitiva del testo “Il Quadricottero”, uscita successivamente all’interno del libro “Fly mode”, edito nel 2020 da Amos Edizioni nella collana A27 Poesia.
In copertina: Foto di Xiaoxiao Xu
About Author / Piero Orlandi
Piero Orlandi, architetto. E' stato responsabile del Servizio Beni Architettonici e Ambientali dell'Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna. Si occupa di conservazione dei beni architettonici, politiche abitative, riqualificazione urbana.