Buongiorno paesaggio, buonanotte città
Sono davvero tante le cose che stanno cambiando dentro e fuori di noi, in questi due anni di pandemia e ora anche di guerra. Tra queste, il nostro modo di abitare la casa e di guardare il paesaggio. Fino a ieri, il Novecento ci aveva abituato a vivere in case ridotte a poche funzioni essenziali, dal momento che facevamo quasi tutto fuori. All’improvviso abbiamo dovuto ribaltare le abitudini, rinunciando al fuori e tornando a passare la maggior parte del nostro tempo in spazi domestici che si sono rivelati troppo angusti. Abbiamo rimpianto le tante stanze che le nostre case hanno perduto con il passare degli anni e che un tempo ci servivano per accogliere, conversare, studiare, lavorare. Abbiamo dovuto adattarci. E altrettanto all’improvviso, lo spazio urbano è diventato prima vuoto di ciò che c’era – automobili, passanti, dehors – poi ha ripreso più o meno l’immagine precedente, ma al costo per noi di assumere abitudini – distanziamento, divieto di assembramento, mascheramento – che hanno modificato profondamente le nostre relazioni e l’idea che avevamo del sociale come luogo accessibile con facilità e soprattutto con gioia. Per giunta adesso le immagini di distruzione e di desertificazione che la guerra ci sbatte in faccia ogni giorno rendono ancora più labile, confuso, problematico il nostro pensiero sulle relazioni umane. E dunque sui luoghi dove queste si svolgono con maggiore frequenza: strade, piazze, parchi, giardini.
Queste difficoltà non fanno che complicare un discorso che già prima era denso di contraddizioni, quello sulla casa, la città, il paesaggio che vogliamo. Ho rivisto un film che la Regione realizzò ormai quasi vent’anni fa –era il 2005- e che ideai con l’amico Vittorio Savi: Buongiorno, Architettura – Buonanotte, Architettura. Rivedendolo mi sono chiesto: è stato giusto e utile credere così intensamente nelle idee che quel film cercava di promuovere e divulgare? Sono superate, vent’anni dopo, o sono servite a qualcosa? E in questi vent’anni qualcosa è cambiato?

Spiego in breve cosa raccontava quel film. Parlava di architettura, è chiaro sin dal titolo, e di quanto vorremmo vederla nascere ogni giorno un po’ ovunque, e di come, invece, vediamo ogni giorno tramontare questa speranza più o meno invano. Vittorio Savi (1948-2011) – architetto, docente, scrittore – ha fatto nascere nella consapevolezza di molti una gran quantità di idee nuove sull’architettura. Lo fece ad esempio quando spinse Luigi Ghirri a fotografare il cimitero di Modena di Aldo Rossi e a pubblicare le fotografie su Lotus (era il 1983); e lo aveva fatto anche quando, due anni prima, aveva chiesto allo stesso Ghirri le immagini per illustrare nel modo più congruo il suo saggio sul paesaggio urbano contemporaneo della pianura Padana, pubblicato sul catalogo della mostra Paesaggio, immagine e realtà alla GAM di Bologna. E Lucio Gambi, il famoso geografo che era stato il primo presidente dell’Istituto regionale per i Beni Culturali, non apprezzò l’accostamento al quale Savi non solo alludeva ma che sottolineava, tra i paesaggi qualunque di Ghirri e le cartografie storiche degli antichi ducati, come a dirci: attenzione, queste due realtà così diverse magari non saranno equivalenti ma certamente sono coesistenti, e tanto vale parlarne, mostrarle.

Il film inizia con un dialogo in cui io e Savi ci chiedevamo se il paesaggio dell’Emilia-Romagna è stato – almeno dagli anni Settanta a oggi – il frutto, anziché di una cooperazione, di un conflitto tra architettura e urbanistica. Dicevo: “A Bologna a un certo momento scompare l’architettura”. E Vittorio mi spingeva a spiegare perché. Perché certe scelte ispirate alla conservazione – su tutte, quella integrale del centro storico e quella della collina – pur se meritorie ed efficaci nel preservare ciò che andava preservato hanno alla lunga avuto almeno un effetto collaterale: un certo immobilismo, il rifiuto – pur di non rischiare di compromettere l’esistente – di ogni innovazione formale e alla lunga anche infrastrutturale. Più oltre nel film, l’architetto Glauco Gresleri (1930-2016), intervistato non a caso in un luogo simbolo della modernità bolognese come la Galleria Cavour, sosteneva che essere moderni non può voler dire rinunciare all’esercizio della creatività. Non è sufficiente conoscere il passato per costruire un futuro, come vogliono le teorie più radicali ed esclusive della conservazione architettonica. La città deve stupire o istruire? Pier Luigi Cervellati, il padre del piano del centro storico, nel film risponde, e naturalmente sceglie la seconda ipotesi escludendo la prima. Pippo Ciorra gli fa eco sulla sponda avversa, parlando di una Bologna che in quegli anni escludeva gli edifici alti, e si sforzava di uniformare a tutti i costi i pochi edifici nuovi all’antico, facendo ricorso a un generalizzato “color mortadella” che simboleggiava il rifiuto verso la rischiosa modernità. Bologna, dice Ciorra, ha voglia di far parte del proprio tempo ma cancella tutti i segni della modernità, e noi siamo qui per aprire questa discussione. La aprimmo infatti, con questi stessi e con altri protagonisti, attraverso alcune iniziative negli anni successivi, come La città storica contemporanea, un ciclo di incontri organizzato da IBC, Istituto Nazionale di Urbanistica e Comune di Bologna che recava in premessa uno scritto dal titolo Contributi per un nuovo progetto di conservazione; e che portava a compimento un percorso iniziato quattro anni prima con un numero della rivista Gomorra dal titolo chiarissimo: Bologna, la metropoli rimossa.

Nel finale del film, Savi tira le conclusioni auspicando una sorta di disarmo bilaterale nel quale “gettano le armi i conservatori e gettano le armi gli innovatori”; e recita un elenco di parole intorno alle quali costruire progetti condivisi, pur se da posizioni differenti: inclusività, scambi centro-periferia, con stili aleatori, dinamici, processuali, generativi, aperti, indeterminati, mobili. Una profezia sulla fluidità, insomma. Mentre scorrono i titoli di coda Nina Simone canta I put a spell on you, e queste note malinconiche, echeggiando fino a oggi dopo tanti anni, fanno pensare che l’incantesimo che Bologna ha lanciato sull’architettura ancora resiste. C’è un grattacielo in più, ma la collina continua ad essere lontana dalla città e la periferia una parte separata della città e il trasporto pubblico un vecchio sogno mai modernizzato e l’architettura contemporanea in centro – o magari ai suoi margini, come nelle tante aree dismesse – un tabù persistente.

Dunque la città è sempre quella del 2005? Dopo il MAST qualche nuovo edificio di qualità ha iniziato a fare capolino alla Bolognina o in via Scandellara, ma sono tante le occasioni perdute – dalla stazione alla metropolitana – i progetti di riconversione delle aree dismesse pubbliche restano al palo e – ciliegina sulla torta – si continua a parlare delle stesse cose di una volta, discettando sui colori giusti delle facciate e sulla rimozione delle scritte, assegnando alla pulizia e al decoro un ruolo troppo centrale per la qualità urbana. Di fronte a noi modernisti stanno ancora coloro che pensano che di fronte al paesaggio si debba assumere una condizione solo contemplativa, che le azioni che sono ammesse siano soltanto monitorare, studiare, curare, al massimo rifare. Noi non pensiamo che l’unica dimensione della città sia il caos, l’extra-large, la bigness tipica di visioni come quella di Rem Koolhaas in Delirious New York. Siamo consapevoli che Bologna non è Manhattan. Avevamo creduto però, e lo crediamo ancora, che l’arte pubblica fosse una possibilità, una risorsa da praticare senza mezzi termini, che il modello del restauro fosse quello low-profile del Palais de Tokyo di Lacaton e Vassal, che i grattacieli fossero, anche, una risposta al consumo di suolo e all’espansione eccessiva; pensavamo che i ministeri non dovessero lucrare sulle aree militari dismesse, che i parcheggi multipiano fossero una soluzione da importare dalle grandi città europee. Pensavamo che la lotta alla cementificazione non significa escludere la possibilità di produrre buona architettura e che i buoni principi della conservazione devono estendersi anche alle opere di qualità di quel Novecento col quale abbiamo nonostante tutto convissuto. Pensavamo anche che non tutti i progetti urbani possono essere realizzati con danaro pubblico e che i privati dovessero essere effettivamente integrati nelle politiche urbane.

Ora tutte queste cose ho cercato di raccontarle, con la larghezza che consente un libro, ne Il regalo del professore. Viaggio nelle città che cambiano (Carta Bianca editore, Faenza, 2011).
Ho l’impressione che non molto sia cambiato in vent’anni. Ho sempre pensato che mentre la paura del diverso è bollata giustamente come razzista e reazionaria nelle politiche sociali, in campo estetico combattere la diversità (intesa come alternativa al tradizionale, all’identitario) è invece considerato un gesto progressista. E’ come una continuazione della gloriosa genealogia dei conservatori di sinistra, che in verità credo si sia estinta già da un ventennio, con la triste vicenda bolognese della demolizione delle Gocce dell’architetto Cucinella, il moderno padiglione di accesso all’Urban Center nato in quegli anni e situato allora nel sottopassaggio di piazza Maggiore.



E’ lì che morì a mio avviso, molta della dignità della cultura della conservazione, del piano del centro storico, di quello collinare, della città non oltre i cinquecentomila abitanti, di tutte le grandi acquisizioni conservative della politica urbanistica bolognese della fine del secolo Ventesimo.


In copertina: Giovanni Zaffagnini_Centrale Enea del Brasimone (BO)
About Author / Piero Orlandi
Piero Orlandi, architetto. E' stato responsabile del Servizio Beni Architettonici e Ambientali dell'Istituto Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna. Si occupa di conservazione dei beni architettonici, politiche abitative, riqualificazione urbana.