Il racconto dell’affascinante viaggio a piedi lungo l’Appia Antica, per uno dei numerosi documentari realizzati da Alessandro Scillitani con lo scrittore Paolo Rumiz.

Paolo Rumiz e Alessandro Scillitani, studiando i percorsi

“Devi venire con l’auto d’appoggio” mi aveva detto Paolo. Non voleva che andassi a piedi sull’Appia Antica, sapeva quanto poco fossi allenato, e poi lui stesso pensava che avrebbe potuto averne bisogno.

Ma avevamo attraversato in barca il Po, pochi anni prima, e mi ero reso conto di quanto faticoso fosse, ogni sera, tornare sui propri passi per recuperare l’auto rimasta indietro.

E poi quello sull’Appia sarebbe stato un viaggio interamente a piedi. Da Roma a Brindisi. Il primo, per me. E sentivo la necessità di farlo, perché le storie sono autentiche solo quando le vivi davvero. Così ho ascoltato con attenzione i consigli sull’equipaggiamento essenziale di Riccardo Carnovalini (fotografo, grande esperto di cammini, a cui Paolo aveva chiesto di preparare per noi il viaggio e di condurci attraverso la via).  Zaino in spalla e macchina da presa in mano, sono partito insieme agli altri.

Temevo di non farcela, ma dopo pochi giorni ero già convinto che non mi sarei più potuto fermare.

Ci dicevano “Il Sud non vale nulla”, e invece camminando a passo lento lungo la regina viarum, ho respirato il sapore dei secoli, ho raccolto racconti straordinari in cui i percorsi del tempo si mescolavano, ho visto nei gesti e nelle parole di chi incontravamo lo stratificarsi spesso inconsapevole di tradizioni e riti antichissimi.

“Una volta, le guardie andavano a piedi” ci disse un contadino, dalle parti di Gravina. Voleva intendere che andare a piedi permette di vedere tutto in modo diverso. Ed è vero.

Ogni documentario è un viaggio, questo lo dico sempre. Ma viaggiare documentando, ha un sapore completamente diverso. E se poi il viaggio è in cammino, è un’apoteosi.

Certo, all’inizio c’è sempre il brivido del salto nel vuoto. E se poi non succede nulla? Se quel giorno cammini e basta e non trovi storie da filmare?

Paolo Rumiz, d’altra parte, ci metteva del suo. Preoccupato, giustamente, di dare priorità al racconto scritto, non si curava affatto delle esigenze filmiche.

Proprio il primo giorno di viaggio, a Roma diluviava. Provai a chiedere a Paolo di posticipare la partenza. Niente da fare. Neanche mi rispose.

Così partimmo e attraversammo il Parco dell’Appia Antica sotto una scrosciante pioggia.

È vero che il mio modo di raccogliere storie con la macchina da presa è affine a quello di chi lo fa con la penna. Trovo essenziale farmi piccolo, accarezzare il mondo e sparire dietro ai mezzi tecnici per non contaminare l’autenticità delle emozioni spontanee.

Però, se piove, piove.

Cercai comunque di raccogliere quello che quel momento mi offriva, consapevole che, almeno in questo caso, sarebbe stato necessario tornare sui miei passi.

Comunque, nonostante alcune eccezioni, i 30 giorni di viaggio furono stracolmi di storie.

A piedi, ad ogni passo cambia il paesaggio, ed entri nelle storie, negli accenti, nelle infinite sfumature di quei luoghi. A passo lento, si riesce a scorgere la bellezza sotto al guscio delle speculazioni edilizie, degli abbandoni e degli abusi sul territorio.

Così ho filmato le storie che passavano davanti alla mia telecamera come se una mano invisibile le guidasse verso una sceneggiatura che si componeva da sola, al ritmo del nostro cammino. Mentre raccoglievo le immagini, il passo si faceva suono, così ho composto le musiche, suggeritemi dai campanacci delle mucche in transumanza per le vie dei paesi, dal nostro andare in marcia al seguito di Riccardo, dal passo lieve delle nostre compagne di viaggio, dal suono delle pale eoliche e da quello dei campi di grano.

Così abbiamo riportato alla luce quella che Paolo chiama “fata morgana”, la via perduta, quella linea identitaria che ci mette in dialogo con il mare e con ciò che è fuori dall’Europa, quel mondo esterno che oggi consideriamo ostile, per cui siamo pronti a innalzare muri in difesa dei nostri confini. Se solo fossimo capaci di prendere fiato, e di metterci in ascolto, sentiremmo il passo degli antichi, il passaggio dei mercanti lungo le vie della seta.

I cammini, da molti anni, sono riconosciuti come strumento etico, ecologico e responsabile per attraversare i luoghi. Soprattutto si mette attenzione al valore spirituale, alla possibilità che viene concessa a chi va a piedi di armonizzare se stesso, di costruire un dialogo interiore.

Però solitamente, quando di parla di cammino, si pensa subito a Santiago. E poi alla via Francigena.

Quello che purtroppo, in Italia, non viene sufficientemente messo a valore, è il patrimonio straordinario delle vie romane.

Sembra incredibile, le antiche vie le percorriamo tuttora. La genialità della rete viaria progettata in epoca romana era tale che le nostre autostrade la ricalcano in direzione e senso.

Pensiamo alla via Emilia, che tuttora segna una linea dritta che congiunge le città emiliano-romagnole tra Rimini e Piacenza, estendendosi fino a Milano. Ma nessuna targa, lungo il percorso, ci ricorda che quella via è millenaria, niente ci fa riflettere sul valore storico, nulla ci evoca i tanti piedi che hanno calpestato questa strada prima di noi. Certo, ormai lungo la via Emilia tutto è modernità. È tutta una conurbazione in cui le periferie di una città si collegano a quelle della successiva, tra capannoni dismessi, aree cementificate, eliminazione capillare di ambiente e natura.

Quindi, attraversare in cammino le antiche vie romane ha un valore straordinario, perché ci permette di recuperare questa dimensione di connessione con i nostri antenati, e allo stesso tempo ci rende possibile scoprire tante cose a livello antropologico e paesaggistico. Una stratificazione di racconti tra l’archeologia e il futuro.

Sembra incredibile, eppure quel nostro viaggiare, nel momento in cui lo facevamo, pareva poco importante.

“Il sud non vende” ci dicevano.

Finito il viaggio, tornai a casa con un brivido di incertezza. Non ero certo che il film, una volta pronto, sarebbe stato distribuito.

Paolo fu molto sensibile al presentarsi di quegli ostacoli imprevisti.

Strutturammo una strategia “dal basso”.

Un viaggio di ritorno, da Brindisi a Roma, per presentare la nostra esperienza e proiettare spezzoni del film.

Sorprendentemente, a ogni tappa si passavano parola, e il pubblico cresceva, giorno dopo giorno.

E non si trattava di un pubblico che, passivamente, ascoltava i nostri discorsi. Ma di una presa di coscienza del valore di questa linea identitaria che percorre quattro regioni. Un segno, un simbolo che unisce territori diversi.

Così si parlò tanto di noi, e la voce arrivò al Ministro della Cultura, che, una volta tornati a Roma, volle riceverci.

Un viaggio partito nella pioggia, con molti scetticismi, assumeva un valore sorprendente.

Da lì è nata una mostra, che ha viaggiato per anni, sono nati progetti, stanziamenti di fondi ministeriali che hanno permesso di riportare alla luce reperti archeologici di grande rilevanza, ed è cominciato un lungo percorso di messa in sicurezza della via per far sì che altri come noi possano percorrerla interamente a piedi.

E poi quel viaggio ha generato altri viaggi, sempre rigorosamente a piedi. Abbiamo camminato, sempre con la stessa squadra, attraversando a piedi le aree tra Amatrice e Visso, colpite dal terremoto. E poi la provincia di Cremona, con un lungimirante e generoso sguardo di attenzione al territorio, ha promosso la realizzazione di un film lungo tutta la via Postumia, la via romana che parte da Genova, attraversa Tortona, Piacenza, Cremona, Verona, Vicenza e termina nella meravigliosa Aquileia, antico e importantissimo porto fluviale.

Raccontare la Postumia mi ha permesso ancora una volta di narrare il paesaggio archeologico e quello moderno. E poi a Volpedo, a pochi passi dalla via, trionfa in piazza una riproduzione del Il quarto stato di Pellizza da Volpedo. Un quadro di una forza pazzesca, in cui una folla in cammino attraversa lenta e fiera la via per raggiungerci. Il quadro è diventato simbolo delle lotte contadine, ed è incredibile trovarlo sulla Postumia, proprio a pochi chilometri dal punto in cui da collina la via diventa pianura, per incontrare le antiche cascine, affascinanti luoghi in cui tanti lavoravano la terra sotto padrone. Oggi le cascine sono in abbandono, oppure sono abitate in parte dai nuovi cittadini. Alessandro Portelli, critico e storico che ho avuto occasione di incontrare a Piadena, mi ha fornito un importante strumento di valutazione: “Non tutto è perduto”, mi ha spiegato, “semplicemente, tutto si trasforma”.

È così. Non bisogna guardare al mondo contadino come a un mondo perduto. Semplicemente, è cambiato. E se ne colgono i segni nelle mutazioni del territorio, che non deve necessariamente essere rappresentato con un tono nostalgico, ma certo da ciò che è passato, sia antico che recente, si possono cogliere tracce del nostro futuro.

Quei mondi esistono ancora. E viaggiando a piedi questo diventa evidente.

Ricordo una volta, alla presentazione di un altro mio film in cui erano raccontate storie di contadini, una bambina si è alzata in piedi e mi ha detto: “Ma allora esistono davvero!”.

La bambina ignorava il presente, perché nessuno gliel’aveva presentato fino a quel momento.

Da bambino, io stesso, attraversando i territori del Sud, guardavo a certi atteggiamenti come segnali di un mondo retrogrado, non al passo con l’attualità. E poi ho attraversato l’Appia a piedi, e dai racconti di Raffaele Nigro, Marco Ciriello, Vinicio Capossela, ho finalmente capito che le processioni rinnovano un rito antichissimo, che si perde nella notte del tempo, in cui i santi erano dei, statue votive, un processo di ricerca armonica di sintonia tra terra e cielo.

Questo per me, è la meraviglia di filmare mentre si è in cammino.