Abbiamo chiesto a Piero Orlandi, fondatore con Monica Manfrini di Spazio Lavì!, associazione culturale e piccola galleria indipendente aperta alla riflessione e sperimentazione multidisciplinare nel campo del territorio e del paesaggio, di raccontarci un po’ la storia del loro spazio, i suoi intenti e i suoi sviluppi nel tempo.

L’associazione culturale Spazio Lavì! è nata a Bologna nel 2012 con, all’inizio, sede operativa a Sarnano, un comune della montagna marchigiana. A Bologna la sede è stata aperta nel 2016 dopo il devastante terremoto nel centro Italia che ha reso inagibile la sede di Sarnano.

Il nostro obiettivo è stato da subito proporre mostre fotografiche sul paesaggio contemporaneo. L’intento è quello di rendere esplicito l’equivoco che si nasconde nell’idea che la qualità paesaggistica e ambientale lasciataci dalle società che ci hanno preceduto scaturisca da un idillio tra uomo e natura. Che ci sia stato insomma un tempo dove buono e bello coincidevano, un’epoca mitica e felice, un lungo paradiso terrestre che oggi stiamo distruggendo, è un’idea romantica e poco realistica. In realtà l’uomo ha sempre modificato l’ambiente, cercando di piegarlo al proprio bisogno, e il fatto che lo faccia ancora oggi non è ragione sufficiente per condannare il paesaggio contemporaneo. Per provare invece a capirne le ragioni storiche, sociali, economiche, anche al prezzo di rappresentarne i lati oscuri, Spazio Lavì! ha invitato autori tra loro anche molto diversi ma che hanno posto questi temi alla base del proprio lavoro e si è concentrato anche e soprattutto su giovani artisti e fotografi, aprendo una collaborazione anche con l’Accademia di Belle Arti di Bologna.

Fabio Mantovani, Cento Case Popolari

Nell’ottobre del 2015, prima che aprissimo lo spazio in via Sant’Apollonia, Spazio Lavì! inaugura presso il Museo della Civiltà Contadina di San Marino di Bentivoglio una mostra di due artiste americane, Dona Jalufka e Paula Metallo, che hanno proposto un racconto a due che si dipana in una serie di sguardi sempre più ravvicinati sul tema dell’integrazione delle culture.

Passato /presente, uomo /donna, maschile/femminile, aggregazione/disgregazione, lontananza/vicinanza e un’altra infinità di varianti vengono via via indagate, a volte con leggerezza, a volte con ficcante determinazione per cercare di infrangere confini, eliminare frontiere. Il lavoro site specific delle due artiste guida il nostro sguardo alla riflessione e educa la nostra sensibilità. Il punto di partenza del loro lavoro è un proverbio italiano “Donne e buoi dei paesi tuoi” che ribadisce il precetto patriarcale di tenere uniti il luogo di lavoro con la creazione autoctona della famiglia.

Paolo Simonazzi, Sissa (Parma), 2009

Nel novembre del 2016, con A6, Davide Catania ha raccontato la storia di un padre e di un figlio che dopo lo sfratto cercano casa. Il segno spezzato, dinamicissimo, della matita morbida conferisce movimento alle strutture delle case, delle automobili, dei parcheggi, delle impalcature. Tutto è mobile, anche gli immobili per eccellenza; tutto è instabile, precario. I due protagonisti vedranno molte case, non solo nei bei palazzi dei quartieri gentrificati alla moda, ma anche in piccole stanze in affitto, cascine semiabbandonate, appartamenti classe energetica G, sottotetti e cantine, ruderi in estrema periferia, roulotte, baracche, tende. 

Il racconto di Davide Catania parla di questo, e i disegni che lo integrano e sovraccaricano diventano indispensabili alla comprensione della ricerca ossessiva e della discesa spiraliforme verso alloggi sempre meno riconoscibili, in quanto tali, agli occhi di noi portatori di uno sguardo privilegiato e perciò profondamente miope. Un paesaggio fatto di pietre, impalcature, staccionate, ferri vecchi e arrugginiti. Un paesaggio in cui ricostruire il bello in maniera più privata e meno appariscente, perché questo è necessario: dove il bello non c’è, va immaginato.

Davide Catania, "A6"
Paolo Simonazzi, Bomporto (Modena), 2006
Paolo Simonazzi, Boretto (Reggio Emilia)

Con So near, so far, mostra fotografica nel gennaio 2019, il reggiano Paolo Simonazzi ha indagato il ruolo complesso e il potere dell’immagine nel ridefinire e focalizzare le nozioni di memoria e di luogo. Farsi coinvolgere dalle sue immagini significa viaggiare tra luoghi reali, ricordati e immaginati. Nel suo lavoro si intrecciano due tradizioni: la profonda e ricca storia visiva dell’Emilia, la provincia centro-settentrionale che è la sua casa, e la mitologia della strada americana, iniziata nei primi anni ’50. Luigi Ghirri è un’influenza riconosciuta e visibile, che Simonazzi riconsidera e rielabora. L’autore cerca lo spirito della sua amata Emilia intrecciandolo con la cultura americana della strada e con il linguaggio visivo della road photography – Walker Evans e Robert Frank, Ed Ruscha, Stephen Shore e William Eggleston – fino a costruire un personale Emilian Road Trip. L’immediatezza delle foto riesce a illuminare il banale fino ad elevarlo al rango di straordinario, e il bizzarro a umoristico; il loro potere trasformativo è la chiave dell’attrazione che provocano nell’osservatore. Simonazzi produce un diario visivo che unisce nazionalità e culture, creando un’intima canzone d’amore per tutti coloro che vivono sulla strada, indipendentemente da dove si trovino.

Paolo Simonazzi, Bagnolo in Piano (Reggio Emilia), 2012

Il giardino è bruciato è il titolo di una installazione realizzata a Lavì! City nel gennaio-febbraio del 2020 dall’artista iraniana Sima Shafti. Il tappeto è una metafora che rappresenta la casa, la terra d’origine. Un passato che si impone sempre sul presente e non va mai dimenticato. Shafti usa spesso questa metafora come un’immagine per raccontare la sua storia, i suoi sentimenti e le sue preoccupazioni: i poteri totalitari tradiscono l’utopia di un uomo libero in un mondo libero, i valori materiali uccidono la poesia, la febbre del potere e la mentalità del profitto seppelliscono la bellezza dell’umiltà, della pazienza, dell’amore verso il prossimo. L’artista vede il suo paese come un bellissimo tappeto bucato dai tarli interni e strappato da frecce esterne. Vede gli abitanti di questo meraviglioso giardino stanchi e disorientati, ipnotizzati da orizzonti che falsamente guardano lontano. Essi non hanno più speranza di salvare la loro casa in fiamme. Il lavoro è realizzato con terra cruda in polvere, pigmenti colorati, fili di lana e seta, frammenti di specchio, cenere, carte e tele colorate con tè nero, bitume e catrame. Le scritte in farsi descrivono i pensieri di Shafti come uno sfondo fatto da sussurri mentre lei stende questo tappeto che è simbolo di una civiltà dimenticata, una cultura in rovina. Lo spazio è usato come un contenitore di ricordi e simboli, portando gli elementi visivi e materiali dal pavimento alle pareti, creando un volume unico che nonostante il messaggio tragico vuole mantenere una sua poesia estetica.

Sima Shafti, Tappeto

In questi cinque anni a Lavì! City sono stati esposti anche gli esiti di alcuni laboratori fotografici svolti proprio per verificare e descrivere lo stato del territorio bolognese e in particolare del quartiere Santo Stefano. Nel 2017, con la collaborazione dell’Ordine Architetti si è tenuto un workshop sui giardini della zona, in particolare il Guasto, la Montagnola e il San Leonardo, confluito poi in una mostra presso la Sala Cavazza del Quartiere. Nel 2019-20 è stato realizzato un progetto fotografico sugli stranieri residenti nel Quartiere, e in seguito la mostra dal titolo Abbiamo incrociato i nostri sguardi. Ritratti di nuovi cittadini di Bologna, composta di trenta fotografie eseguite dal fotografo francese Stéphane Asseline nel corso di una residenza d’artista presso l’associazione, nel novembre 2019. Sono paesaggi urbani e ritratti di singole persone o di gruppi, accompagnati da brevi testi scritti dai soggetti fotografati, a volte in italiano altre volte nella lingua madre. Gli autori, pur preferendo restare anonimi, hanno voluto in un certo senso firmarsi indicando ad Asseline i luoghi urbani in cui desideravano essere fotografati, spesso nella propria abitazione o in prossimità di essa, o in luoghi pubblici di loro affezione.

Questo progetto bolognese ha un precedente nel lavoro che Asseline ha realizzato nel 2017, denominato Rue de Paris e eseguito a Villeneuve-Saint-Georges, un comune francese di trentamila abitanti situato nella regione dell’Île-de-France, sulla strada per Parigi.

Bologna, come tutte le città, è un grande contenitore di una memoria collettiva e di un immaginario che si costituisce attraverso l’unione di persone, oggetti e luoghi. Questo insieme di significati è ciò che produce l’identità di un territorio. Nei quartieri che accolgono nuovi abitanti, siano di urbanizzazione recente o nel centro storico, la relazione tra la storia dei luoghi e quella delle persone è ancora in larga misura da costruire, o per dire meglio, è in costruzione. I due lavori di Asseline, il parigino e il bolognese, hanno inteso testimoniare questa realtà attraverso una collezione di immagini che mostrano la storia materiale e umana di un luogo, il suo passato all’interno del suo presente.

Paula Metallo, Birroccio

Nostro intento per il futuro è puntare a coinvolgere gli abitanti del quartiere e della città e responsabilizzare la comunità sui temi dell’accoglienza e dell’integrazione sociale. Intendiamo anche continuare a essere un punto di riferimento per la formazione professionale degli studenti dell’Accademia di Belle Arti e della Facoltà di Lettere di Unibo proprio come lo siamo stati in tutti questi anni.

In copertina: Sphane Asseline, Bologna