Quando si arriva a Rua del Muro c’è già da chiedersi se non si è sbagliata strada. Il piccolo centro ducale di Modena ci ha accolti sotto il pesante soffitto di un primo novembre grondante di pioggia. Poche persone in giro, dentro e fuori i caffè. Un clima pacato e silenzioso, da giorno di festa. Mentre i nostri sguardi si lasciavano sedurre dal continuo e armonico alternarsi di stili romanico e rinascimentale, abbiamo condotto i nostri passi verso una meta che credevamo sicura. 

Svoltando per Via degli Adelardi, ci guardiamo attorno. Non riusciamo a trovare traccia di ciò che stiamo cercando. Una vetrata, un richiamo luminoso, nemmeno una piccola teca per le locandine, nulla. Poi distrattamente alziamo lo sguardo sopra un massiccio portone di legno ed eccola. “Sala Truffaut”; una piccola ed elegante insegna in campo rosso amaranto, quasi un gonfalone, in perfetto stile con la sua via, con la sua città.

Dal fondo della strada arriva Serena Agusto, con la quale abbiamo appuntamento. Nonostante la giovane età, Serena porta avanti l’attività di conduzione e programmazione della Sala già da parecchi anni. Ha tra le mani un folto mazzo di chiavi. Forse per lei entrare in quel palazzo non muove più alcuna sorpresa, e probabilmente non immagina la nostra non appena varcata la soglia.

Come altri cinema e teatri da noi visitati, anche il Truffaut sembra celarsi in un angolo segreto del tessuto urbano. Il vero ingresso lo si trova all’interno del profondo androne di una più grande struttura, dietro al massiccio portone che si dischiude completamente solo in occasione delle aperture al pubblico. In un attimo, quasi istintivamente, viene da chiedersi se queste piccole, piccolissime realtà indipendenti non abbiano, di fatto, una veste in comune. Quasi che in questi luoghi, e di questi tempi, l’offerta di una cultura profonda sia entrata in una fase di consapevole clandestinità.

Come ci viene presto raccontato, qui trovano posto differenti realtà associative e numerosi appartamenti concessi a persone socialmente disagiate. Un tempo il caseggiato ospitava una caserma militare, costruita sulle rovine dell’antico monastero di Santa Chiara. Poi i militari se ne sono andati lasciando il posto al decadimento più profondo.

“Fino agli anni ottanta” spiega Serena, “questo luogo era tristemente noto per essere un pisciatoio fra le rovine. La successiva riqualificazione architettonica si è incentrata sull’idea di un accorpamento di spazi con differenti destinazioni d’uso. Ma pare che questo progetto inclusivo non abbia tenuto conto delle concrete possibilità di convivenza di realtà così diverse fra loro.” Attraversiamo lo spiazzo acciottolato, fra colonne e spesse mura parzialmente abbattute, di quello che un tempo doveva essere un chiostro, e poi una piazza d’armi. “Questi spazi potrebbero prestarsi a manifestazioni e proiezioni all’aperto. Purtroppo la stretta contiguità con gli altri inquilini difficilmente ci permetterà di andare oltre quello che già stiamo facendo. Ma in verità volevo mostravi un’altra cosa.”

Sul lato opposto dello spiazzo l’immagine di un’enorme colomba che spicca il volo si staglia contro il cielo. Lo stile e la tinta seppia chiara riporta ad un classicismo da inizio Novecento. “È stata realizzata dall’artista riminese Eron nel 2017, in occasione del Festivalfilosofia. Un wall painting che celebra le radici della città. L’opera è dimezzata, volutamente incompleta, come quella pace che vorrebbe simboleggiare, ma che non è mai stata pienamente raggiunta.”

È tempo di entrare e scoprire cosa si cela dietro a quell’ingresso dalle tinte gialle e avorio, fra quelle colonne e quell’arco dai sapori così marcatamente felliniani. Un tempio in scala ridotta che conduce ad una sala di appena centoventotto posti e ad uno schermo di tre metri per sette. La sensazione è di entrare in un ambiente piacevolmente notturno, moderno. In sala domina il nero dei pavimenti, dei soffitti e delle pareti, sulle quali spiccano le luci sferiche delle luminarie, come pianeti disposti su un’unica orbita obliqua. Quelle luci accendono elettricamente i tendaggi e le poltrone di un intenso blu indaco che paiono sfuggire verso il fondo della sala donandogli profondità.

Serena è un fiume in piena di informazioni.

“Il Truffaut nasce nel 1992, nella sala che ospitava un precedente auditorium, a completamento di un progetto che portava a costituire il Circuito Cinema Modenese. Il tutto sotto l’egida dell’amministrazione comunale e dell’assessorato alla cultura. A questa Associazione aderiscono anche il Supercinema Estivo e il Filmstudio 7b. Di fatto sale a gestione autonoma, ma che al tempo stesso si pongono il reciproco impegno di proporre un’offerta coordinata per un pubblico differenziato, senza rischi di sovrapposizione. Alla base di tutto c’è la volontà di offrire principalmente film di qualità e d’autore. Tuttavia, come Sala Truffaut, consideriamo come altrettanti punti di forza quelle attività legate agli eventi e alle collaborazioni con altre realtà. Come il Festivalfilosofia durante il quale, il terzo weekend di settembre, proponiamo per lo più documentari a tema (quest’anno era la libertà e la ribellione ai sistemi nelle varie epoche storiche); oppure il Modena Viaemili@docfest e il MÀT, settimana dedicata alla salute mentale.

Serena è la sola dipendente diretta dell’Associazione, e resta un mistero come faccia a gestire un’attività così densa e variegata.

“Per la gestione fisica del cinema, come ad esempio la biglietteria, mi avvalgo di alcuni collaboratori. Mentre per la scelta dei titoli posso ancora contare sul proficuo confronto con Alberto Morsiani, fondatore e vero veterano di questo cinema. Ci troviamo regolarmente per stabilire la programmazione di più stretto giro, soprattutto per le prime visioni. Recentemente abbiamo proposto in proiezione esclusiva Titane di Julia Docournau per tre weekend consecutivi. Sebbene non sia uno di quei film che sfondano gli incassi siamo contenti, abbiamo avuto un’affluenza piuttosto alta. I numeri sono variabili. Con Petite Maman di Céline Sciamma, è andata diversamente, abbiamo avuto 35 persone nelle serate sottotitolate e anche meno in quelle in sola lingua originale. Ciò non toglie che a noi preme continuare a proporre filmati di un certo spessore, senza sentirci in balia di imprevedibili pronostici d’affluenza.” Le viene quasi da ridere. “Se si pensa che abbiamo avuto quasi un sold out in periodo di riapertura a capienza limitata con un film come Drive my car, che dura tre ore, con mascherine e distanziamento, allora possiamo aspettarci qualsiasi sorpresa. E il posto è così piccolo che non abbiamo nemmeno un bar che offra un attimo di ristoro!”

Eppure i numeri non sono certamente quelli di due anni fa. Anche qui, come a livello nazionale, nel 2019 si era notato un rivitalizzarsi degli interessi nei confronti dei cinematografi. Quella vitalità sembra ancora soffrire di una fase depressiva difficile da superare. Qualcosa continua a frenare il ritorno degli spettatori.

“Alcuni li abbiamo persi perché comunque rientrano nella schiera di coloro che sono contrari alle norme vigenti, quindi al green pass, se non addirittura al vaccino. Fortunatamente non abbiamo avuto contestazioni in loco. Anche se mi è capitato di riceverne in risposta alle nostre newsletter, con tanto di citazioni su Hitler. Fortunatamente casi isolati e decisamente risibili.”

Certamente è così. Anche se le circostanze e il luogo in cui ci troviamo potrebbero evocare altri film, come Fahrenheit 451. Ovviamente non la versione edulcorata del 2018, classica “americanata” per cui si deve essere eroi a tutti i costi. Piuttosto la ben più vecchia versione di François Truffaut, più sobria e fedele alle atmosfere di Bradbury, nella quale l’antieroe, figura a lui cara, è colui che cerca di sfuggire al sistema rifugiandosi in un mondo alternativo, ai margini della società, coltivando incerte speranze per il futuro. Questa riflessione ci offre la possibilità di parlare anche di libri.

“Quello purtroppo è un capitolo chiuso. Non sono state necessarie le fiamme, è bastata la crisi dell’editoria. La definitiva affermazione di internet come mezzo d’informazione ha sopravanzato, in maniera spesso approssimativa, altre forme di mediazione critica, fra i quali i testi monografici. Per anni abbiamo curato rassegne, per tema e per autore. Come è avvenuto con quelle dedicate a numerosi registi, quali Corso Salani, o Paolo Benvenuti, per citarne solo un paio. A queste proiezioni è sempre seguita una pubblicazione. Purtroppo, è un dato di fatto, la schiera dei lettori si assottiglia sempre di più. Ad un certo punto abbiamo letteralmente cominciato ad inseguire le piccole case editrici specializzate, ma queste, una ad una, hanno finito per chiudere i battenti. Forse un giorno le cose torneranno a cambiare, e allora ne riparleremo. Tutto dipenderà dal pubblico che si verrà a formare in futuro.”

I cambi generazionali portano sempre a nuove sorprese.

“Indubbiamente sì”, sorride. “Ultimamente mi sta capitando qualcosa di veramente strano con i giovanissimi. Quelli che io ho ribattezzato come “i feticisti”. Imprevedibilmente questi giovani hanno cominciato a frequentare la Sala, a volte anche in gruppi numerosi. Soprattutto nei giorni feriali, durante i quali spesso si proiettano i film del cinema restaurato o ritrovato. Quello che loro definiscono come cinema vintage. Li puoi vedere mentre scherzano fra di loro, commentando gli stili e i modi di vivere di anni addietro. Nondimeno sono degli spettatori critici, che si lasciano coinvolgere, e spesso sono più informati di molti adulti. Per soddisfare la loro affluenza abbiamo dovuto addirittura organizzare delle repliche, come è avvenuto con Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard. Quando è il momento, vengono da me a fare incetta di poster e locandine da portarsi a casa. Come si faceva una volta. Recentemente mi è capitato un ragazzino che si è prenotato in anticipo per potersi accaparrare un pannello grande come una porta. È tornato veramente, e non so come, se l’è portato via. Sinceramente non ho ancora ben compreso cosa li attiri in queste visioni. Il muoversi verso l’ignoto più totale? Uno sguardo diverso sul mondo? O perché i film delle precedenti epoche appaiono così “cool” ai loro occhi? Di certo non si parla di una forma di nostalgia, o di appartenenza, dal momento che la maggior parte di loro ha meno di vent’anni.”

Le cose non sembrano capitare per puro caso. Le Lezioni di cinema e dintorni dedicate in tre serate a Storia, Teatro e Arti visive, sembrano rivolgersi espressamente a loro.

“In parte sì. Precedentemente avevamo messo in cantiere dei progetti a finanziamento pubblico, finalizzati proprio all’educazione scolastica al cinema e all’audiovisivo. Poi, come si sa, la pandemia ha bloccato tutto. Ora queste lezioni sono aperte ad un pubblico allargato, ma l’obiettivo giovanile rimane. È importante trasmettere le principali nozioni di lettura dei film, sollecitando anche la curiosità dei futuri spettatori e degli attuali appassionati intorno ai canoni estetici del cinema. Come prima esperienza sta andando piuttosto bene, e non è affatto escluso che avrà un seguito.”

Ci concediamo ancora un giro turistico per la struttura. Nella stanza dei bottoni i proiettori a 35 e a 16 millimetri, inutilizzati da tempo, mantengono l’occhio puntato sullo schermo e sembrano fremere dal desiderio di ripartire. Nell’ingresso alcune locandine annunciano le prossime visioni, fra queste indubbiamente spicca Effetto notte del ’73. Dopo questa lunga chiacchierata, la domanda sul motivo per cui si è scelto quello del regista francese come nome da dare alla Sala, sembra quasi superflua.

“Truffaut” sintetizza Serena, “è un nome facilmente riconoscibile, ed è indubbiamente uno dei massimi esponenti della Nouvelle Vague e della Politique des auteurs. Si voleva dare un’impronta cinefila culturale a questa nostra attività, possibilmente in forma retrospettiva e monografica. Qualcosa che non fosse identificabile con un essai di massa, ma al tempo stesso nulla di elitario. È stata una scelta identitaria precisa, e il tempo ci ha dato ragione.”

Rientrando a casa scivoliamo veloci in autostrada accanto ad autogrill gremiti come formicai. Dopo quanto vissuto, ci appaiono ancor più come una chiara immagine di una società sempre più distopica, nella quale i mezzi e i fini si sono livellati su una stessa scala di valori, giustificati da un basso consumismo che è diventato quasi una ragione d’essere. Subito nella mente si accende l’immagine del piccolo cinema preziosamente nascosto fra i palazzi, nel centro di Modena. Immerso nella penombra della sala mi figuro un uomo seduto al centro della sala blu indaco, la giacca di velluto e una sciarpa legata al collo. Lo sguardo fisso allo schermo, sta scrupolosamente osservando i risultati del suo ultimo lavoro attraverso la cortina fumosa di una sigaretta accesa. Ci sono registi che dovrebbero vivere più di cent’anni. Come lo descriverebbe oggi, François Truffaut, il nostro mondo?

In copertina: Il foyer della Sala Truffaut, Modena