Hotel Splendid, uno sguardo antropologico
Mauro Bucci racconta la sua esperienza filmica con i migranti ospitati all’Hotel Splendid di Cesenatico, in cui si intrecciano sguardo documentaristico e ricerca antropologica.
Per affrontare il complesso tema dei movimenti migratori, cominciai nel 2014 un lungo progetto di ricerca allo scopo di realizzare un documentario etnografico in Romagna. In quel periodo, a seguito di un aumento del numero di migranti provenienti dalla sponda meridionale del Mediterraneo, fu necessario ospitare i richiedenti asilo in diverse parti del territorio italiano per l’iter di regolarizzazione. A Cesenatico, un albergo vicino alla spiaggia chiamato Hotel Splendid venne convertito, come altre strutture in Italia, in centro di accoglienza straordinaria, o CAS, per richiedenti asilo.
Per la realizzazione del documentario, frequentai quotidianamente i migranti ospiti della struttura. Ragazzi per lo più provenienti dall’Africa occidentale e con un’età compresa tra i 20 e 30 anni. Il risultato del progetto fu Hotel Splendid (2016), un documentario etnografico frutto di circa un anno di ricerca sul campo e ricavato da oltre 100 ore di girato. Un’opera corale che racconta il vissuto dei migranti prima dello sbarco e durante le procedure di accoglienza.
Proporrò qui un’analisi inedita del mio documentario discutendone un elemento in particolare: il trattamento filmico dello spazio. Metterò, inoltre, a confronto Hotel Splendid con un altro mio film in produzione: The Strong Man of Bureng. Opera complementare per indagare tecniche differenti di rappresentazione dello spazio applicate ad opposti contesti ed esperienze dei soggetti ripresi.

Spazi, esperienze e metafore
In Hotel Splendid, lo sguardo della videocamera si adatta agli spazi dell’hotel, alle stanze e ai suoi corridoi dov’è racchiusa la vita quotidiana dei ragazzi. Un luogo da cui i migranti sono, nel rispetto di alcune regole, liberi di entrare ed uscire a piacimento.
Tuttavia, in attesa di incontrare la Commissione che deciderà sul loro status di rifugiato, gli ospiti vivono con fatica il protrarsi della permanenza avvertita come una pausa forzata ed imprevista alla realizzazione dei loro progetti di vita. Una costrizione, spesso difficile da comprendere e accettare, di aspirazioni e necessità, prima fra tutte la ricerca di un lavoro dignitoso per aiutare chi è rimasto a casa, nel paese di origine. La frustrante attesa dei migranti è un sottotesto che accompagna l’intero film.
Nella rappresentazione filmica, questa condizione si esprime a partire da inquadrature per lo più statiche in cui la videocamera documenta le routine quotidiane. Le riprese sono girate quasi esclusivamente a mano, privilegiando inquadrature fisse o con leggeri reframing e limitati movimenti di macchina.
Nonostante alcune sequenze del documentario siano girate fuori dal centro di accoglienza (come il mercato o la spiaggia di Cesenatico) le immagini degli spazi circoscritti dell’hotel sono dominanti. In queste scene, inoltre, elementi quotidiani e ordinari dei luoghi sono impiegati per esteriorizzare metaforicamente il vissuto, le esperienze e la dimensione psicologica dei protagonisti.
Ad inizio film, per esempio, vediamo dei fili usati per stendere gli indumenti sul tetto dell’hotel che ospita i migranti.

Nella metà superiore di questa inquadratura fissa, il cielo viene tagliato diagonalmente da lunghe linee. Traiettorie diverse che finiscono per convergere verso l’orizzonte, in direzione del centro urbano, dov’è ben visibile il grattacielo di Cesenatico, icona della città. Questi elementi visivi, che predominando nella composizione del quadro, rappresentano simbolicamente le storie personali dei migranti che emergeranno nel corso del film. Realtà e percorsi di vita diversi che s’incontrano ora in questo stesso luogo.
La contrapposizione spaziale tra dentro e fuori, cioè tra centro di accoglienza e mondo esterno, è impiegata, invece, come leit-motiv metaforico del film. Lo spazio esterno, oltre ad essere un luogo fisico, assume, infatti, valore di rappresentazione allegorica del mondo che si vorrebbe vivere e, soprattutto, in cui si vorrebbe agire ma che per il momento rimane precluso. Inquadrature di finestre, scorci sul paesaggio esterno, sguardi dei protagonisti verso l’orizzonte intensificano la loro ricorsività via via che la narrazione prosegue e la pressione dovuta all’interminabile attesa si fa più stringente.

Queste immagini ritornano in scene che tematizzano il bisogno di libertà, di andare oltre la vita in hotel, assumendo il significato di una manifestazione esterna di uno stato soggettivo interiore dei personaggi. Uno spazio desiderato ma irraggiungibile, osservabile solo da lontano in attesa degli esiti, spesso incerti, sul riconoscimento dello status di rifugiato.

Questa condizione di “sospensione” e di insicurezza nella vita dei migranti, che rende vago e precario ogni progetto futuro, viene restituita metaforicamente anche da immagini di un altro luogo spesso ricorrente. Quelle del tetto dell’hotel dove lunghe fila di vestiti e lenzuola sono lasciate appese ad asciugare, ondeggiando imprevedibilmente in balia del vento.

In questo luogo si raggiunge inoltre il climax del film, dove la tensione tra spazio dell’hotel ed esterno si acuisce. Alcune immagini di paesaggi della città fanno, infatti, da introduzione e cornice ad una scena di danze dei migranti. Un momento dove i ragazzi, riunitisi sul tetto dell’hotel, esprimono energicamente con la musica, il corpo e le parole la loro volontà di vivere e “lavorare qui, in Italia”, come canta il protagonista del film. Cioè di autodeterminarsi e appropriarsi, finalmente, di quel mondo esterno fino ad ora negato.

La rappresentazione metaforica degli spazi non riguarda, però, solo la condizione presente e le aspirazioni future dei migranti ma anche un altro tema, quello delle loro esperienze passate.
Inquadrature di colonie estive abbandonate, ruderi desolati situati dirimpetto all’Hotel Splendid, assumono significato allegorico di un mondo interiore: rappresentano la pesante eredità, fatta di turbamenti, perdite e vicende dolorose, accumulata sulle spalle dei migranti nei loro viaggi verso l’Italia e raccontata nelle interviste del film.

Vediamo luoghi degradati contrapposti al centro di accoglienza che, malgrado l’attesa obbligata, offre un riparo sicuro e dignitoso rappresentando, quindi, la condizione di vita migliore raggiunta ora in Italia. Una dualità delle esperienze dei migranti, una cesura molto forte tra passato e presente che è qui comunicata a livello visivo da questi luoghi chiaramente opposti spazialmente, concettualmente e metaforicamente.
Trasformazioni e memorie
Nel 2018 il progetto di accoglienza presso l’Hotel Splendid termina e l’albergo viene riconvertito nuovamente in struttura ricettiva per turisti. L’hotel ritorna ad essere, come tutti gli altri del quartiere, luogo di svago e riposo vicino al mare di Cesenatico rinegoziando ancora una volta il suo significato.
Di un mondo dove si incontravano e amalgamavano vissuti simili o molto diversi tra loro, storie di dolore o riscatto, speranze e delusioni, nuovi legami o addii, non rimane più alcuna traccia. L’hotel cambia anche nome e scompare ogni riferimento ai migranti o a quant’è accaduto, all’eccezionale e potente esperienza che, nel bene e nel male, il progetto di accoglienza ha comportato. Rimangono quindi i ricordi di chi tra migranti, operatori e volontari ha frequentato questo luogo, i brevi reportage giornalistici, alcuni resoconti fotografici e il film Hotel Splendid che ora acquista anche valenza di memoria di un’esperienza unica e irripetibile per la città di Cesenatico.
Sguardi diversi: da Hotel Splendid a The Strong Man of Bureng
La vita di un migrante dopo la procedura di accoglienza a Cesenatico, è al centro del mio documentario, girato in Gambia e attualmente in produzione, The Strong Man of Bureng. Il film racconta le vicende di un rifugiato che, a seguito delle mutate condizioni politiche del suo paese, può far ritorno al villaggio natale, Bureng, e rivedere la famiglia.
Le modalità di rappresentazione di luoghi e spazi sono qui molto diverse, non solo per le ovvie differenze geografiche.
Come abbiamo visto, in Hotel Splendid il centro di accoglienza è vissuto anche come costrizione, un luogo dove si possiede un controllo limitato della propria vita perché incanalata nelle procedure burocratiche di asilo.
In The Strong Man of Bureng assistiamo, invece, ad un ribaltamento completo della situazione.
La stessa persona compare in entrambi i documentari, ma qui, tornata benestante dall’Europa, è libera di aiutare il proprio villaggio e compiere le scelte che meglio crede. Non è più il luogo in cui si trova che decide della sua vita ma è la sua capacità di agire che modifica l’ambiente in cui vive.
In Hotel Splendid l’impiego di riprese piuttosto statiche contribuisce a suggerire visivamente le limitazioni imposte dal luogo. In The Strong Man of Bureng, invece, il protagonista è seguito da vicino da un fluido piano sequenza mentre attraversando a piedi il suo villaggio ne presenta persone, abitazioni, organizzazione.

Una lunga inquadratura densa di informazioni dove osserviamo le interazioni tra gli abitanti, il lavoro delle donne e degli uomini, la convivenza con gli animali e così via. Camminare in un luogo familiare aiuta, inoltre, ad innescare dinamiche di elicitazione: incontrare luoghi, persone e cose conosciute dal protagonista fanno emergere riflessioni e memorie che gli consentono di descrivere in maniera più naturale e persuasiva l’ambiente fisico e sociale che lo circonda. Perfettamente a suo agio mentre cammina nel villaggio e accompagnato dalla videocamera, il protagonista la orienta consigliando cosa riprendere nei diversi ambienti incontrati. Esprimendo la chiara condizione di libertà e self-empowerment da lui vissuta in questo luogo.
Lo spettatore viene introdotto nel villaggio dalle parole e dagli sguardi in macchina del protagonista. Questi elementi, combinati ad una posizione della videocamera vicina a lui e ad altezza d’uomo, conferiscono al racconto filmico un punto di vista intimo e personale. Assieme al rumore di passi, al paesaggio sonoro del villaggio, alle lievi oscillazioni delle inquadrature durante la camminata, il film evoca nello spettatore qualcosa dell’esperienza fisica e sensoriale di essere presenti sul posto, l’impressione di partecipare di persona a questo luogo. Un modello di intervista più immersivo per lo spettatore rispetto alla formula delle talking-heads di Hotel Splendid, resasi qui necessaria per raccontare esperienze di viaggio, cioè eventi già trascorsi non direttamente documentabili.

Abbiamo visto quindi come la rappresentazione dello spazio, nei casi esaminati, non è neutra o innocente, i luoghi non sono, cioè, semplici sfondi o contenitori di azione. Ambienti, paesaggi e gli elementi che li compongono sono in grado di trasmettere significati più profondi e complessi dettati dalle scelte stilistiche dell’autore del film e basate sulle esperienze delle persone riprese.
In copertina: Fotogramma tratto dal documentario “Hotel Splendid”.
Bibliografia:
Bucci Mauro, “Hotel Splendid – Rappresentare le migrazioni tramite il cinema etnografico”, in Africa e Mediterraneo – Cultura e Società, dic. 2017, n. 2/17 (87), pp. 64-67.
Casey Edward S., “How to Get from Space to Place in a Fairly Short Stretch of Time”, in Senses of Place, 1996, Steven Feld, Keith H. Basso (eds), Santa Fe, School of American Research Press, pp. 13-52.
Melbye David, Landscape Allegory in Cinema – From Wilderness to Wasteland, 2010, New York, Palgrave Macmillan.
Pink Sarah, “Walking with Video”, in Visual Studies, 2007, Vol. 22, no. 3, pp. 240-252.
About Author / Mauro Bucci
Filmmaker e ricercatore indipendente nel campo dell’antropologia visuale.