Vincere l’oscurità: Sainey e il baseball per ciechi
Il regista Michele Aiello ci parla di “Un giorno la notte”, un film documentario che vede Sainey, un ragazzo migrante affetto da retinite pigmentosa, raccontare in prima persona la sua storia, la sua malattia e la sua passione: il baseball per ciechi.

Come siete entrati in contatto con Sainey? Com’è nata l’idea di fare un film sulla sua storia?
Il progetto nasce dalla volontà della cooperativa l’Arca di Noè – una cooperativa che si occupa della gestione dei rifugiati a Bologna e provincia – di fare un tipo di comunicazione diversa da quella istituzionale/promozionale, sperimentando la tecnica del video partecipativo. Così dei loro operatori sociali, tra cui Michele Cattani (responsabile della comunicazione e co-regista del film), hanno partecipato a un corso di formazione dedicato al video partecipativo tenuto da Zalab,la casa di produzione che ha prodotto il film, per poi attivare in autonomia un laboratorio a Bologna.
A questo laboratorio hanno partecipato giovani rifugiati africani, tra cui il ventenne di origine gambiana Sainey: si ragionava su come dare una visione diversa dell’Africa che si allontanasse dall’immagine del bambino con la pancia gonfia ritratto negli spot delle grosse ONG.
Durante il laboratorio è stato chiesto ai partecipanti di portare un oggetto a cui erano particolarmente legati. In quell’occasione Sainey ha portato una mazza da baseball,perché proprio a Bologna aveva iniziato a giocare. Abbiamo quindi deciso di accompagnarlo per poter filmare la sua squadra. Solo una volta arrivati lì ci siamo resi conto che si trattatava di baseball per ciechi e, parlando con gli operatori, siamo venuti a conoscenza della patologia di Sainey, la retinite pigmentosa, una malattia genetica degenerativa
Una volta finito il laboratorio, gli abbiamo chiesto se avesse voluto raccontare la sua vita parlando anche della sua malattia, e del motivo per cui non ci avesse detto niente a riguardo. Lui con semplicità ci rispose: “Nessuno me lo ha chiesto” e accettò di partecipare alla produzione del documentario. Da lì abbiamo cominciato a collaborare sulla scrittura, volevamo che Sainey fosse un coautore a tutti gli effetti, e abbiamo individuato con lui alcuni momenti della sua vita su cui sviluppare il racconto. Questa è stata l’origine di tutto.
Quanto tempo siete stati a contatto con Sainey e la sua squadra? Avete incontrato delle difficoltà?
Il rapporto con la squadra è sempre stato molto vivo perché il baseball per ciechi è un bello sport agonistico nato proprio a Bologna da un ex giocatore di baseball. I giocatori sono molto orgogliosi della loro squadra e stanno cercando di far includere questo sport come disciplina paralimpica.
Loro avevano quindi bisogno di parlare del baseball e di raccontarlo.
Fin da subito si sono fidati di noi e del nostro lavoro, in particolare l’allenatore e Pasquale, il capitano.
Abbiamo avuto accesso agli allenamenti, alle partite; infatti – oltre le due partite presenti del film che si sono tenute in Sardegna – abbiamo filmato anche due o tre partite che si sono svolte a Casteldebole. Non ci sono state difficoltà con la squadra.
Abbiamo avuto difficoltà con Sainey nel momento delle riprese, era un periodo complicato e lui era più scarico rispetto al periodo del laboratorio: era uscito dal centro di accoglienza, non riusciva a trovare una casa a causa della sua provenienza e era in attesa che le liste scorressero per ottenere il lavoro come centralinista per cui si era appena formato. Abbiamo quindi deciso di riattivare un mini laboratorio insieme a lui, e nel giro di un mesetto siamo riusciti a ricreare quella partecipazione che lui aveva dimostrato di avere durante il laboratorio.


Parliamo del co-protagonista di questo film, Pasquale. Chi è e che rapporto hacon Sainey?
Pasquale, il capitano non-vedente della squadra di baseball, è una sorta di guida per Sainey, se l’è preso sotto la sua ala protettiva. Non lo conosceva fuori dal mondo dell’allenamento e grazie al documentario hanno cominciato a confidarsi e insieme al documentario è cresciuta anche la loro amicizia. Tanto che Sainey ha raccontato a Pasquale del suo viaggio dal Gambia per venire in Italia, cosa che non aveva mai fatto con nessuno dei suoi compagni di squadra. Questo ha colpito molto Pasquale che per la prima volta si è trovato a stretto contatto con uno di quei migranti di cui si sente parlare ai telegiornali. Pasquale dal suo canto ha insegnato a Sainey come orientarsi e destreggiarsi nella realtà quotidiana da non vedenti.
Penso che Pasquale riveda in Sainey un se stesso giovane, che aveva bisogno di un supporto da qualcuno più consapevole, ed è ciò che cerca di offrire a Sainey. Loro non nascono ciechi quindi la perdita della vista è qualcosa che va elaborato. Un cieco totale si confronta fin dalla nascita con la mancanza di uno dei sensi e con la diversità. Loro sostanzialmente hanno dovuto rielaborare un lutto: Pasquale ci ha messo anni a rielaborarlo e adesso ha una visione molto positiva della vita, ma come ammette lui stesso: “A volte un trauma non si può solo superare, bisogna affrontarlo tutti i giorni”.
Che tipo di percorso fa Sainey nel film?
Una parte importante del documentario è il racconto della sua vita attraverso le sue confessioni davanti alla videocamera:Sainey si siede in una stanza e racconta cosa gli è successo, fin dal primo ricordo della malattia, al suo arrivo in Italia e ai suoi pensieri sul futuro.
Quando si è rivisto la prima volta sullo schermo una delle prime cose che ha detto è di non essersi quasi riconosciuto e di essersi chiesto: “Chi è quella persona?”.
Quella persona era lui, era sempre stata lui, solo che stavolta era riuscito a esprimere tutto il suo mondo interiore, caratterizzato da un’intelligenza e una sensibilità fuori dal comune. Si è fidato di noi e del mezzo, riuscendo a mettere da parte tutta la sua insicurezza per trovare la forza di raccontarsi e raccontare la realtà degli ipovedenti.
Credo che poche persone nel suo stato emotivo e con le sue difficoltà abbiano la stessa forza di raccontarsi che ha avuto lui.


Quali paure affronta Sainey nel corso del film?
Sainey ci confidò che aveva tre paure: quella di correre senza vederci, che ha affrontato giocato a baseball, quella del tramonto, perché segnava la discesa verso il buio (a cui assisterà chiacchierando con Pasquale), e quella del volo.
Per il finale del documentario abbiamo pensatodi esaudire il suo desiderio di vincere la paura di volare.
Così un direttore della fotografia di Zalab, che aveva il patentino per il parapendio e aveva partecipato al film, ci ha proposto di fare le riprese del lancio. Le concidenze della vita: Pasquale aveva fatto in passato due o tre lanci come paracadutista, e si è proposto come compagno d’avventura.
La scena del lancio con il parapendio chiude il film, senza fermarsi a spiegare la paura di Sainey, ma lasciando un messaggio molto più aperto sulla vita. È bello anche che ci sia questo spazio per le libere interpretazioni.
Ci puoi dire di più sul tipo di formato che avete scelto per il documentario?
Sì, abbiamo deciso di utilizzare un formato più ristretto rispetto al classico 16:9, ossia il 4:3, che rende l’inquadratura più quadrata e che quindi copre un raggio di visione inferiore al formato a cui siamo abituati. È un collegamento con la visione ristretta che caratterizza la retinite pigmentosa, ma il nostro intento non era ricreare o imitare la visione di Sainey, ma costringere il pubblico, e prima di tutto noi stessi, a una visione più limitata. Nell’ultima sequenza io e il montatore Corrado Juvara abbiamo pensato di passare al 16:9: l’apertura dell’immagine voleva essere una metafora di una nuova apertura di Sainey nei confronti della vita. Abbiamo poi deciso di mantenere tutto in 4:3 ma tornando indietro, forse, avrei azzardato!



Secondo te che significato ha avuto per Sainey partecipare a questo documentario?
Sicuramente è stato un modo per parlare di se stesso, per rielaborare insieme agli altri la malattia, la sua incurabilità, e le sfide e difficoltà che la comunità dei non vedenti condivide.
Sainey ha sempre definito questo film il suo souvenir. Quando avrà perso la vista saprà di aver prodotto questo lascito, una “cartolina per il futuro”.
Perché, secondo te, il video partecipativo può essere la forma più adatta per raccontare le storie di chi vive ai margini?
Secondo me non è necessariamente il mezzo o la tecnica più adatta, ma sicuramente ti permette di avvicinarti molto di più ai soggetti e di dare una prospettiva dall’interno della loro storia. Si può fare anche un bellissimo documentario sulla comunità dei ciechi, e farlo in maniera rispettosa, delicata, non paternalistica, e che faccia emergere anche la simpatia e l’ironia di queste persone.
Un regista dovrebbe sempre mettersi in posizione di ascolto e di rispetto perché è responsabile dell’immagine che ne verrà fuori. Più sei vicino e rispetti la dignità di quella persona, più anche la persona si riconosce. Se invece mandi in pasto quella vita al giudizio della gente, che sia un giudizio negativo o un giudizio di pietà, può risultare molto violento.
Il video partecipativo corre meno questo rischio perché fornisce una chiave di lettura interna e quindi tutto ciò che raccontato dall’esterno può risultare paternalista, vittimista o banale, quando è lo stesso protagonista che lo dice assume una dimensione soggettiva e dignitosa, che solo lui è libero di fare.
Con il video partecipativo si opera un cambio di prospettiva mettendo la videocamera direttamente in mano al protagonista, che sceglie cosa e come raccontarlo.
Ovviamente non è così immediato se la persona non è già un filmmaker. Per questo durante il laboratorio il regista di occupa di facilitare la scrittura e di aiutare i partecipanti a non cadere nell’autoreferenzalità, definendo insieme ciò che il protagonista vuole effettivamente esprimere e trovando un modo efficace per farlo.
Cosa vi portate a casa come registi da questa esperienza?
Io sono molto contento di aver conosciuto delle persone nuove e di essermi immerso per la prima volta nella comunità dei non vedenti, avendo modo di superare anche dei miei preconcetti. Scoprire il modo in cui vivono la vita per me è stato molto istruttivo.
Poi non conoscevo il baseball per ciechi: era anche la prima volta che mi confrontavo con uno sport dedicato ai disabili ed è stato molto bello vedere l’agonismo, la ricerca della vittoria, la fatica, la rabbia, la felicità e anche il loro modo di affrontare gli infortuni.
Credo che sia un peccato che le Paralimpiadi siano ancora separate temporalmente dalle Olimpiadi, dovrebbero essere integrate, cosicché possano essere scoperte da più persone e uscire dall’immaginario di “sport di serie B”.
Riferimenti:
- Il regista Michele Aiello
- Il regista Michele Cattani
- Trailer “Un giorno la notte”
- La produzione Zalab film
- La cooperativa sociale Arca di Noè
- La squadra Fortitudo Bologna White Sox
- ZalabView, la piattaforma streaming di cinema del reale
In copertina: Il protagonista Sainey con i suoi occhiali oscuranti durante una partita di baseball.
About Author / Claudia Rosati
Laureata in Antropologia e appassionata di cinema documentario, lavora nella realizzazione di progetti audiovisivi.