L’audiodescrizione: una sceneggiatura al contrario
Alessandra Carta e Irene Balbo, responsabili del progetto “Film Voices”, che fa a capo alla cooperativa Handicoop, lavorano in tandem all’elaborazione dei testi per l’audiodescrizione di film e documentari. Una pratica ormai molto diffusa all’estero, ma che si sta gradualmente diffondendo anche in Italia.
Ma cos’è esattamente l’audiodescrizione? “La creazione di una traccia audio aggiuntiva che esplicita tutti gli elementi visivi a cui la persona ipovedente o non vedente non può avere accesso, quali costumi, setting, colori, espressioni facciali, caratteristiche fisiche ed azioni. Solitamente l’audiodescrizione viene inserita all’interno delle pause non pertinenti tra le battute dialogiche del prodotto di riferimento.” (fonte ARTIS Project).
In una recente chiacchierata Alessandra e Irene (vice presidentessa dell’Unione Italiana Ciechi di Bologna) mi hanno raccontato quanto sia particolare e fondamentale il loro lavoro per un cinema più inclusivo.

“Tu prima guardi il film e poi scrivi l’audiodescrizione, è come scrivere una sceneggiatura, ma al contrario!” E’ così che Alessandra Carta racconta ironicamente l’iter del suo lavoro da audiodescrittrice.
La vera peculiarità del suo modus operandi è che con l’associazione Film Voices l’elaborazione dello script viene fatta direttamente insieme ad una persona non vedente, che fornisce un contributo prezioso per una corretta ed efficace audiodescrizione e diventa parte attiva del processo.
L’altro elemento di questo binomio lavorativo infatti è Irene Balbo, non vedente dalla nascita e appassionata di cinema. Alessandra e Irene si sono conosciute durante un workshop sulle audiodescrizioni, organizzato da Film Voices nel 2010 dopo aver vinto il Premio Kublai per il miglior progetto di innovazione del territorio.

Come avviene il processo di scrittura della traccia di audiodescrizione? Innanzitutto Irene e Alessandra visionano il film da audiodescrivere per intero, prendendo appunti sugli elementi che ritengono più significativi da descrivere, a cui segue un confronto fra le due, le prove di lettura degli script e la trascrizione del timecode delle varie clip.
Naturalmente è fondamentale che dialogo e audiodescrizioni non si sovrappongano e allo stesso tempo che ci siano dei secondi di pausa, degli attimi di “respiro”, per non sovraccaricare troppo l’ascoltatore. Quando dialogo e audiodescrizioni si accavallano – può avvenire più spesso nei film coi dialoghi serrati, all’interno dei quali, accade qualcosa di fondamentale – il rischio è quello di uscire dalla sala con un gran mal di testa!
A dispetto del lavoro squisitamente più tecnico, è il confronto su cosa e su come descriverlo a costituire il passaggio più delicato del lavoro, dal momento che ogni cultura e ogni tipologia di non vedenti (dalla nascita o acquisiti) ha delle preferenze rispetto al tipo di linguaggio da utilizzare. Gli spagnoli ad esempio, così come gli italiani, di solito usano un lessico più colorito, con più “fronzoli”, mentre i tedeschi generalmente optano per delle descrizioni più oggettive e asciutte. Irene si dichiara fin da subito più vicina all’approccio tedesco, non solo per un gusto personale ma anche perché risulta più inclusivo verso coloro che non hanno mai visto. In che senso? : espressioni come “è triste”, piuttosto che “è stupito”, fanno riferimento a delle espressioni facciali che vengono riconosciute come tali perché “viste” nelle facce di chi abbiamo di fronte. Per Irene però la questione è decisamente diversa:
Le espressioni facciali per me non sono scontate, mentre il sorriso lo è perché tante volte tocchi un viso che sorride, o una persona che piange. Le espressioni più raffinate o che so, il gioco di sguardi, sono difficilissime da audiodescrivere a una persona che non ha mai visto. Per quanto tu me la possa descrivere, io non ce la posso fare.
È per questo che si preferisce usare termini come “aggrotta le sopracciglia”, “si mangia le unghie”, “sbarra gli occhi”, in modo tale che il non vedente possa proiettare sul protagonista i movimenti che egli stesso compie, e trarne le proprie deduzioni.
Appare subito evidente che, oltre alle preferenze culturali, è la stessa differenziazione tra ciechi dalla nascita e ciechi acquisiti a generare scelte linguistiche e contenutistiche diverse: spesso succede che chi seguiva il cinema a livelli alti quando vedeva, da non vedente sia un amante di quelle audiodescrizioni che includono anche la descrizione dei movimenti di macchina, delle inquadrature, eccetera. Questo, ci spiega Irene, per un cieco dalla nascita “è molto complicato perché è qualcosa di legato al modo di guardare, al concetto della prospettiva, al concetto della soggettiva e dell’oggettiva, son tutte cose che io devo imparare, e non sono per tutti comunque.”


Come è facile immaginare, anche il colore è un elemento un po’ delicato: prima di tutto per una questione di economia delle tempistiche per audiodescriverlo, ma soprattutto perché l’idea che quel colore trasmette fa parte anche dell’immaginario collettivo dei ciechi e dunque fornisce loro delle informazioni aggiuntive sul carattere di un personaggio o sullo stile di un’ambientazione.
Ma se un film non è fatto solo della sequenza di eventi narrata, come si fa a rendere la cifra stilistica del prodotto attraverso l’audiodescrizione? La risposta è unanime: con la scelta del linguaggio.
Lo script infatti viene elaborato tenendo conto innanzitutto della tipologia di film che si sta audiodescrivendo: se un film è ambientato negli anni Cinquanta va da sé che anche il lessico utilizzato per l’audiodescrizione debba mantenere quello stile lì. Allo stesso modo per una commedia leggera verranno utilizzate frasi ad effetto, concise e immediate, così come può avvenire per un cartone animato, mentre se si tratta di un film d’autore si utilizza un linguaggio più forbito ed evocativo. Per i documentari il linguaggio sarà invece più asciutto e oggettivo: essendo già di per sé descrittivi hanno bisogno che la voce integri solo gli elementi visivi che si danno per scontati dalla visione (ad esempio la forma e il colore di una pianta o animale). Alessandra ci parla non solo di cifra stilistica ma anche del target di spettatori a cui il film si rivolge, poiché il linguaggio scelto viene orientato anche sulle aspettative che chi lo va a vedere ha su quel prodotto. Lo spettatore medio che va a al cinema a vedere Antonioni si aspetta un lessico di un certo tipo rispetto a quello che va a vedere Benvenuti al Sud, banalmente.
Per quanto comunque la scelta del linguaggio sia più o meno attenta e ponderata, lo spettatore non vedente non può prescindere dalla mediazione dell’audiodescrittore, che diventa l’anello di congiunzione tra il regista e il fruitore. Come ci fa notare Irene il suo è un lavoro piuttosto ostico
“perché comunque l’audiodescrizione è la traduzione da un linguaggio visivo a un linguaggio verbale: è proprio un linguaggio diverso, con dei tempi di fruizione diversi. Con gli occhi tu puoi vedere un sacco di cose nel giro di tre secondi mentre a voce no, non puoi descriverne così tante. Necessariamente ti trovi a dover fare una scelta, e per quanto tu possa esser bravo, dai sempre una tua interpretazione.”

È chiaro quindi che il rapporto tra le persone non vedenti e il cinema è particolare e non sempre facile, non solo per le modalità di fruizione ma anche per le possibilità e le occasioni di poter effettivamente usufruirne: la disponibilità delle audiodescrizioni durante la visione di un film non sempre è alla portata di tutti, ma spesso è limitato a quelle episodiche proiezioni accessibili all’interno di festival o rassegne cinematografiche.
In passato infatti le sale dovevano dotarsi di cuffie a infrarossi e di un operatore che si occupasse di far partire l’audiodescrizione in sincrono con il film: ciò ovviamente non era uno sforzo economico che potevano permettersi le piccole sale d’essai (molto presenti a Bologna e molto amate dai non vedenti poiché meno dispersive e confusionarie) o di provincia. Questo di fatto escludeva tutta una serie di persone che abitano in contesti più periferici. .
Spesso, ci confessa Irene, la soluzione era andare al cinema con un buon amico che ti facesse da audiodescrittore, tra i brontolii e le richieste di silenzio di chi ovviamente non immaginava quello che stava accadendo!

Negli ultimi tempi però c’è stata una innovazione importante: l’app Movie Reading ha rappresentato un passaggio fondamentale dal momento che solleva i cinema da ogni onere e rende possibile la partecipazione dei non vedenti a qualsiasi proiezione solo con l’utilizzo del proprio smartphone.
Movie Reading è stata sviluppata da una ditta romana. Nata inizialmente per offrire sottotitoli ai sordi durante i film, ha ampliato le sue funzioni integrando anche le audiodescrizioni: essa permette di avere un archivio di film di cui sono disponibili sottotitoli e audiodescrizioni che lo spettatore può scaricare. Una volta in sala queste tracce si sincronizzano automaticamente non appena la proiezione inizia.
Il vantaggio maggiore naturalmente è il fatto che questo un metodo è ormai alla portata di tutti e che quindi permette ai non vedenti di poter andare al cinema con chiunque e senza dover inseguire la proiezione o il cinema accessibile.
L’aspetto negativo è che purtroppo l’archivio delle audiodescrizioni, per quanto sia in sensibile crescita, si fonda, almeno in Italia, sul lavoro di poche realtà.

Se l’avvento di piattaforme come Netflix, Disney+, Prime Video e altri ha portato alla diffusione di tutta una serie di buone pratiche riguardanti l’accessibilità da parte di persone con disabilità e quindi alla proliferazione di prodotti audiodescritti e sottotitolati, siamo ancora ben lontani da una reale sistematizzazione dell’elaborazione dello script direttamente con la persona non vedente. La stessa Rai, che vanta numerosi prodotti filmici audiodescritti, si avvale del confronto con i diretti fruitori solo a posteriori, in fase di revisione dello script.
È fondamentale invece che in un mondo in cui l’attenzione ai temi dell’accessibilità e dell’inclusione è fortunatamente sempre più diffusa, la comunità dei non vedenti sia protagonista di questo cambiamento, aprendo inoltre nuove possibilità professionali a chi ha questo tipo di disabilità.
Non solo però: in un mondo in cui l’immagine è sempre più importante, è necessario anche lavorare sull’audiodescrizione dei cartoni animati per bambini perché come ci spiega Irene “il rischio di essere un bambino che non vede è quello di essere isolato dagli altri bambini. Quindi il fatto di avere più competenze culturali vicine agli altri bambini, sapere chi è quel personaggio lì, per i bambini è un momento di socializzazione, che aiuta a chiacchierare.
Io ad esempio quando ero piccola capivo che Gatto Silvestro era un gatto chiaramente, quindi potevo immaginarlo, ma che Titti fosse un canarino ‘ho scoperto solo molto dopo. Sembra una banalità, ma fa la differenza.”
Ciò che risulta evidente dalla chiacchierata con Alessandra e Irene è che la strada da percorrere per abbattere le barriere e offrire un’accessibilità a tutto tondo è ancora lunga, ma l’interesse che questa tematica desta fa sì che questa strada si prospetti piena di traguardi soddisfacenti e stimoli sempre nuovi.
Vorrei concludere con le parole di Irene: “io non posso pensare che il mondo cambi per me, cioè io so benissimo di appartenere a una minoranza ed è ovvio che è la maggioranza che fa il trend, è inevitabile che sia così. Voglio solo poterne fare parte.”
About Author / Claudia Rosati
Laureata in Antropologia e appassionata di cinema documentario, lavora nella realizzazione di progetti audiovisivi.