Underground, underchurch, è il Cinema Galliera
Un quartiere nato operaio alla fine dell’ottocento a ridosso della Stazione Centrale e dei viali che circondano le antiche mura della città di Bologna. Un quadrilatero compresso fra le imperiose torri della Fiera e la distesa sbrecciata di officine meccaniche in gran parte dismesse, o riadattate. Ripulita oggi dalla polvere di carbone e dalla limatura di ferro, la Bolognina potrebbe uscire felicemente dalla penna descrittiva di un Dickens non più vittoriano, ma puramente emiliano, e con non pochi tocchi di colore in più.
Piccola Bologna, al tempo stesso sobria, essenziale ed elegante, con i suoi mattoni rossi, le lunghe schiere di palazzi aranciati, o giallo arenaria. Ad un primo sguardo il centro rionale può apparire come un paese a sé stante, incastonato come una pietra grezza in questa quasi-periferia dove continuano a sorgere, un po’ ovunque, immense strutture di vetro e cemento. Il quartiere operaio è divenuto col tempo multietnico, moderno, forse caotico e trafficato, ma pur sempre dinamico e presente.
Ad impressionare è l’imponente mole della Chiesa del Sacro Cuore di Gesù, dal gusto vagamente bizantino. Lo sguardo si perde verso le sue linee slanciate e incombenti, e quasi non ci si accorge di una presenza defilata, in basso, alla sua destra. Un’insegna bianca su sfondo verde, aggrappata ad una cancellata, invita ad entrare in una corte interna ed annuncia una sorpresa: CINEMA GALLIERA.


Prime impressioni
Sotto all’insegna quattro locandine si prestano a biglietto da visita. Sono un po’ in anticipo sull’appuntamento, ho il tempo per dare un’occhiata ad alcuni titoli. “Il colore di sera” di Spartaco Capozzi; “Io resto” di Michele Aiello; “San Donato Beach” di Fabio Donatini; “Jodorowsky.’s Dune” di Frank Pavich.
Una macchina arriva. Mani che sbattono le portiere, che frugano nelle tasche, controllano il telefono, chiudono l’agenda, perdono e ritrovano le chiavi che ci condurranno nei sotterranei della chiesa. Marte Bernardi ha il passo di chi vorrebbe un momento di tregua, ma non se lo può permettere. Come responsabile della promozione del cinema vuole conoscere in anticipo, e toccare con mano, quel che verrà programmato al Galliera. Per fare questo è anche disposta a spostarsi di città in città. Arriva da Ferrara, ha la nostra intervista, e come se non bastasse fra un’ora si aprono i cancelli.
Scendiamo velocemente la gradinata. Sopra di noi grandi archi si chiudono in tre ordini di colonne. Sembra quasi di entrare in un film in bianco e nero.
Le luci dell’ingresso si accendono una ad una e, quasi a sorpresa, arrivano i colori vivi e brillanti di un ambiente piacevolmente accogliente nella sua essenzialità.
L’immensa navata sopra di noi
A sorprendermi è l’improvviso e assoluto silenzio. Come a scongiurare una vertigine, gli occhi si muovono in alto, inseguendo un inevitabile pensiero. Proprio sopra le nostre teste si trova l’immensa navata della chiesa: l’altare, le panche schierate, i fedeli assorti davanti alle cappelle votive, ombre sonnolente di candele accese. In sottofondo i rumori profani della città riescono a filtrare attraverso i grandi portali e le vetrate a mosaico. Dentro e fuori, sopra e sotto. Una dimensione quasi sfasata, che supera la fantasia, ma che anticipa il senso concreto dell’esistenza di questo luogo.
Marte fa gli onori di casa, subito raggiunta da Mattia Della Casa, direttore artistico “di antica data” come ama definirsi, “si parla del 1995.”
Ci sistemiamo sotto al palco. Loro in prima fila siedono sulle poltrone con la stessa abbandonata famigliarità di chi si accomoda nel proprio salotto. La conferma viene da Mattia, “in effetti, con tutto il tempo che gli dedichiamo, questo luogo per noi è diventato come una seconda casa. Quando cominciai mi occupavo praticamente di tutto, compreso della scelta dei titoli. Quando ancora le sale si riempivano l’impresa non era impossibile, ma poi con l’apertura delle multiplex il nostro piccolo cinema si è progressivamente svuotato, soprattutto di giovani. Avvilito, ero sul punto di desistere. Poi è arrivata Marte, e insieme abbiamo cominciato a cercare nuove strategie di rinnovamento”.
“La nostra idea,” interviene Marte “era di presentarci come una realtà sperimentale, degli apripista per nuove forme di fruizione del cinematografo. Una scelta borderline che presentava i suoi rischi, soprattutto per un pubblico over cinquanta, oramai esiguo, abituato da sempre alla dimensione del cinema parrocchiale.”

Attualizzazione e apertura
Il Cinema Teatro Galliera appartiene al circuito dell’Associazione Cattolica Esercenti Cinema (ACEC). Marte e Mattia di fatto sono dipendenti del loro parroco, con il quale condividono (essendo anche lui un grande conoscitore di cinema), la scelta delle opere. Il tutto nel rispetto delle linee guida della commissione CEI che suggerisce il miglior approccio a certe tematiche.
“C’è da dire che con l’avvento di Francesco l’asticella si è notevolmente alzata. Visioni come “Il caso Spotlight”, o “The Danish girl” sarebbero state impensabili prima del suo arrivo.”
Un processo di attualizzazione e apertura al passo coi tempi.
“Sì, è vero” prosegue Marte. “Tuttavia, una delle prime cose da fare era proprio quella di “svecchiare” l’immagine comune del cinema di parrocchia. Solo il termine evoca ancora in molti l’idea di un ambiente raffazzonato, bonario, sempliciotto. Anche se a malincuore, abbiamo progressivamente abbandonato il titolo parrocchiale in favore di quello di Sala della comunità. Non per questo una comunità ristretta, come poteva apparire prima, alla sola dimensione del quartiere, ma qualcosa di più ampio respiro, un luogo di attrazione attorno a tematiche d’interesse da sviluppare assieme. Questa è una delle ragioni per cui, dal 2013, nei giorni feriali abbiamo cominciato a proiettare documentari, mantenendo nei giorni festivi le proiezioni dedicate alla fiction. Già nel 2018 i documentari coprivano il cinquanta per cento degli incassi. E se il fine settimana il pubblico rimaneva ancora molto differenziato per tipologia e fasce d’età, durante la settimana aumentava sensibilmente la presenza di giovani fra i diciotto e i quarant’anni, soprattutto universitari. Molti venivano da altre parti del territorio; qualcuno anche da altre città. Tutto questo ci faceva davvero ben sperare per il futuro, non solo di questo cinema in quanto luogo fisico, tutt’altro, ma in quanto centro di aggregazione e cultura. Un po’ per volta la veste nuova del cinema parrocchiale stava avendo successo, e ora stiamo consapevolmente tornando a chiamarlo con il proprio nome originario.”

Una missione senza presunzione
I loro sguardi vividi e le mani mai ferme mi trasmettono un profondo sentire. Quasi si trattasse di una missione.
Mattia sorride. “In effetti c’è del vero. Tuttavia, si tratta di una missione senza presunzione. I sacrifici non mancano, ma quel che più conta è la passione. Impossibile nascondere che se fosse per noi proietteremmo solo filoni di film e documentari che hanno fatto parte del nostro background culturale. Di quando eravamo bambini e ragazzini, per intenderci. Ovviamente non è possibile, e dobbiamo ammettere che queste nuove scelte azzardate hanno aperto nuovi mondi davanti ai nostri occhi. Le cose stavano davvero volgendo al meglio, anche in termini economici.”
Questa sua ultima frase, ancora rivolta al passato, ci forza ad affrontare un argomento scomodo, doloroso, per alcuni trito fino alla nausea, e che tutti vorremmo lasciarci alle spalle.
“È così…” prosegue Marte. “Il trend positivo era continuato fino al 2019. Potevamo coprire le spese e permetterci pure dei lavori di rinnovamento nell’arredamento. Con la pandemia c’è stato l’inevitabile tracollo, ed anche ora, che timidamente si sta ritornando ad una progressiva normalizzazione, i segni di quell’implosione nelle relazioni fra gli individui si contano numerosi sulle sedie vuote. Sarà tutto da rifare daccapo. Ricostruire quel senso di comunità, ridare fiducia. Anche se rischiamo continuamente di rimetterci, insistiamo a mantenere al di sotto dei limiti consentiti il numero di poltrone occupabili. Abbiamo affrontato una spesa quasi spropositata per installare un impianto di areazione efficace ed altri dispositivi di sicurezza, eppure questo ancora sembra non bastare. In questo clima di terrore, c’è chi ci chiama esprimendoci i propri timori, ed è restia a ritornare in sala per paura del contagio. I nostri stessi governanti sono stati un mezzo attraverso il quale si è trasmessa un’immagine negativa dei luoghi di cultura. Ci hanno relegati a fanalino di coda in quanto a sicurezza. È stato un grave errore di valutazione, pieno di lacune e di ritardi. L’intero comparto è in agonia e i numeri sono tragici. Si parla di un -90% sul cinema d’essai e di un -50% sul blockbuster. Il pubblico deve tornare. Senza spettatori i contributi non serviranno certo a salvare il settore.”


Gli effetti della pandemia
Mattia esprime comunque un cauto ottimismo. “La crisi ha in un certo senso fatto tabula rasa di tutto. Un motivo in più per guardarsi attorno, reinventarsi, e capire cosa fare da grandi. Alcune vittime ci sono state, anche nel nostro cinema-teatro. Avevamo già ridotto le rappresentazioni dirette sul palco al solo teatro dialettale. Si cercava di mantenere una tradizione, anche con un pubblico contenuto. Ora sarebbe impossibile sostenerlo con poche decine di persone a serata. Molte compagnie non hanno lavorato a nuovi spettacoli, alcune hanno deciso di sciogliersi. Al contrario, nel mondo dei documentari l’offerta è altissima.”
Ecco, c’è da chiedersi come funziona la scelta dei filmati. Col passaggio al digitale, grazie all’abbattimento dei costi, molti cineasti indipendenti hanno avuto la possibilità di mettersi in produzione, o di produrre di più. Questo non ha giocoforza significato un innalzamento medio della qualità delle opere. In effetti Marte e Mattia mi confermano che, visto l’improvviso picco dell’offerta, per loro oggi c’è quasi l’imbarazzo della scelta.
“Noi puntiamo decisamente su una scelta ad ampio spettro” puntualizza Marte. “Arte, natura, ambiente, storia, attualità, tutto va bene. Quel che conta è che il documentario si presenti con una certa forma, che esprima qualità, e che soddisfi la necessità di approfondimento sul tema trattato. In alcuni casi ci vengono proposte, o suggerite, opere davvero valide, ma il più delle volte siamo noi a cercarle. Il nostro è diventato un pubblico piuttosto esigente in fatto di qualità. Ma al tempo stesso ci sta dando fiducia, soddisfazione. Al punto che alcuni arrivano senza nemmeno sapere cosa proiettiamo, eppure vengono perché sanno che non ne usciranno delusi. Siamo partiti con una base di pubblico di 500 spettatori. Nel giro di sette edizioni siamo arrivati, fra prime, e numerose repliche, alla cifra di 17000. È una grande responsabilità, che ci ha portati a una scelta di differenziazione per temi. Stiamo studiando diverse sotto-rassegne da porre sotto al cappello di DOC DOC CHI È? La prossima, dopo un anno e mezzo di attesa, è dedicata alla musica e al suo indissolubile legame con la realtà del cinema.”

Senso di comunità
La fiducia è un ottimo veicolo per il passaparola. Ancora oggi è il più potente mezzo di comunicazione nelle comunità fisiche.
“I social e il web hanno una loro valenza” conferma Mattia. “Tuttavia per una realtà come la nostra il consolidamento del senso di comunità si ha con il contatto diretto col pubblico. Ragion per cui cerchiamo sempre di avere un regista, o un produttore, almeno alla prima proiezione. Se questo non è possibile ci avvaliamo del supporto di persone davvero capaci. Si tratta di esperti del settore documentaristico che si prestano volentieri ad un’introduzione, o un approfondimento. Un pubblico attivo, partecipe, che torna a casa con un’esperienza da condividere con qualcuno certamente ritorna. A volte portandosi dietro un “nuovo curioso”. È questo il nostro passaparola.”
Il tempo stringe. Ormai è tempo dei saluti. Fra poco la biglietteria apre e qualcuno già si sta avvicinando all’ingresso. Si salutano quasi tutti per nome. Si respira un’aria di profonda famigliarità.
Fuori il sole è già tramontato. Il traffico no, non se ne parla, è l’ora di punta. Lungo le strade che mi riportano alla macchina rifletto sull’entusiasmo di quelle persone che, come loro, trovano in un sentire comune, in una condivisione per passioni, tanta parte di se stessi.
I muri dei palazzi sono ricoperti di graffiti. Firme solitarie e incomprensibili. Figure e anime fugaci che in maniera compulsiva replicano all’infinito il proprio disperato desiderio di esserci.
Marte e Mattia hanno ribadito più volte la necessità di tornare ad essere comunità attraverso la comunicazione e la presenza fisica. Hanno ragione. E sanno bene che la prima regola del comunicare, da sempre, è quella di avere “davvero” qualcosa da dire.
Note:
Le piccole grandi storie di sale cinematografiche resilienti in regione Emilia-Romagna è iniziato con l’articolo Gli amici del Vittoria / emiliodoc n.1.
In copertina: Interno del Cinema Galliera, Bologna
About Author / Claudio Tamburini
Scrittore, disegnatore, amante delle buone compagnie. Collabora con l'Associazione Amici del Vittoria.