La battaglia quotidiana di Rent Strike Bolognina
Michael Petrolini, regista di “Rent Strike Bolognina”, racconta la vita e la lotta quotidiana degli inquilini di un condominio della Bolognina per il diritto all’abitare, messo a dura prova dall’arrivo della pandemia.

Com’è iniziata per te questa esperienza?
Mi sono trasferito a Bologna all’inizio del 2020, e sono venuto a vivere in questo palazzo di via Serlio al numero 6. A un mese dal mio arrivo è iniziata la pandemia… Dopo due settimane mi sono venuti a bussare alla porta due ragazzi: un punk con i tatuaggi in testa e una ragazza ricciolina. Mi chiesero se volevo far parte di una sospensione temporanea dell’affitto e scrivere una lettera alla proprietaria (era una proprietaria unica che possedeva tutto il palazzo).
Tutti gli affittuari infatti si trovavano in una situazione disagiata dal punto di vista lavorativo, dato che erano tutti a partita IVA, erano musicisti, tatuatori, filmmaker e artisti, tutte persone che non avevano un lavoro fisso, proprio come me.
A me erano anche saltati tutti i lavori di marzo e con soli 250 euro sul conto corrente non sapevo concretamente come pagare l’affitto. Non ho potuto che rispondere immediatamente: “Perché no, facciamolo!”.
Tutto è partito con una semplice richiesta di sospensione dell’affitto per poi diventare una battaglia che si è protratta per quasi un anno: la proprietaria aveva chiuso qualsiasi dialogo con noi e siamo arrivati ad appendere degli striscioni di protesta per farci sentire un po’ dal mondo esterno.
Dalla sospensione dell’affitto siamo passati a “Non paghiamo finché non verremo considerati”, per tradursi successivamente in un’autoriduzione dell’affitto e infine in un accordo fra le due parti. I proprietari infatti hanno aderito ad un protocollo messo a disposizione a Bologna per l’emergenza, si trattava sostanzialmente di far passare l’affitto – per un anno – dalla quota inizialmente pattuita a quella del canone concordato.
Per otto mesi ci siamo interfacciati con una procuratrice che faceva da intermediaria tra noi e la proprietaria – e veniva anche a ritirare gli affitti – che ci ha sempre detto che non era possibile accedere al protocollo, per poi scoprire che la comunicazione non era mai arrivata alla diretta interessata.
Già dalla prima assemblea proposi di girare il documentario: dato il periodo storico abbastanza complesso, il mio primo pensiero è stato quello di documentare ciò che realmente stava accadendo dentro quelle mura, in modo da poterlo utilizzare in futuro come testimonianza per tutelare chi stava conducendo questa battaglia.
Come ti ha fatto sentire sapere che qualcuno nelle tue stesse condizioni si stava organizzando?
Ero da poco arrivato in una nuova città e in una nuova casa, come da poco avevo conosciuto la mia coinquilina, e la prospettiva di ritrovarmi chiuso in casa per non si sa quanto tempo – perché adesso sappiamo che sono stati due mesi ma inizialmente non sapevamo nulla su quanto sarebbe durata – mi preoccupava molto. L’arrivo di questi due ragazzi per me è stato davvero provvidenziale, praticamente una salvezza, l’esempio concreto de “l’unione fa la forza”.


Com’è stato vivere un’esperienza collettiva in un momento in cui tutti erano in isolamento?
Devo dire che è stato molto particolare e interessante: ho scoperto fin da subito che quello non era un palazzo “normale”, dove ci sono le famiglie e una certa tranquillità, lì c’era sempre movimento:per le scale capitava spesso di incontrare personaggi particolari, punk, anarchici, ecc. Di certo il fatto che fossero quasi tutti ragazzi giovani ha aiutato moltissimo ed è stato più facile decidere di unirsi e di fare qualcosa di concreto per la situazione critica che stavamo vivendo.
Ho poi scoperto che Maria Elena, la ricciolina che mi era venuta a bussare, era un’avvocata per i diritti dell’abitare: senza di lei probabilmente non avremmo fatto nulla. Ignoranti dei nostri diritti non avremmo infatti avuto i mezzi per portare avanti questa battaglia.
C’erano altri ragazzi che facevano parte di movimenti bolognesi che si conoscevano già, poi c’erano quelli come me che si sono trovati lì un po’ casualmente, mossi dalla necessità. Di assemblea in assemblea si è formato un nucleo. Devo dire però che con il passare del tempo più che aumentare, il numero dei partecipanti cominciava a scendere. Infatti col tempo la gente ha iniziato ad avere sempre più paura, anche perché la proprietaria minacciava di cacciarci tutti con una la lettera di sfratto: in una situazione così critica, in cui già si era senza soldi né lavoro, perdere anche la casa era ovviamente qualcosa di spaventoso. Questa però è stata senza dubbio una strategia dell’amministrazione per dividerci e indebolirci e, in qualche modo, ha funzionato.
Che rapporto hai instaurato con gli intervistati?
Con un gruppetto di quattro o cinque di loro sono rimasto molto in buoni rapporti. Io non mi sono mai definito un attivista, sono più un osservatore, mentre loro hanno continuato a fare politica e hanno poi fondato un’associazione culturale che si chiama “Plat” che porta avanti un percorso sull’affitto e il diritto all’abitare.
Purtroppo degli altri inquilini non è rimasto quasi più nessuno, perché col fatto che noi avevamo dato fastidio non ci hanno rinnovato più i contratti. Così, piano piano, sono riusciti a cacciare tutti dal palazzo.


Come hai scelto di rappresentare i protagonisti di questo documentario? In che ambientazioni e momenti hai deciso di riprenderli?
I protagonisti sono tendenzialmente tre, più che protagonisti direi che sono coloro che portano avanti la storia. I primi due sono che sono quelli che hanno iniziato il movimento, Maria Elena e Daniele, alias Marconcio, (l’avvocatessa e il punk), e poi c’è Simona, la mia coinquilina, l’insegnante con gli occhiali.
Ci sono poi altri personaggi secondari che contribuiscono ad arricchire il racconto come Gioele, il musicista, che non parla quasi mai, ma che con la sua musica riesce a riportarci a una dimensione più riflessiva e a dare ritmo alla narrazione. Penso alla scena dove c’è un montaggio alternato con le scene di lui che suona nella sua stanza e quelle concitate della manifestazione, in cui si crea un mood di contrasto tra quello che sta succedendo nel palazzo e quello che sta succedendo fuori.
I vari personaggi sono stati ripresi prevalentemente nei loro ambienti domestici, mentre parlavano, discutevano della lotta o preparavano il pranzo: nella loro quotidianità insomma. L’altro luogo molto importante era la corte interna, perché lì si condensavano le battaglie e le dinamiche collettive che hanno dato vita al documentario.
Di esterno c’è poco, solo la manifestazione e il momento in cui si va a parlare al Comune per chiedere informazioni sul protocollo.
È un racconto di vita quotidiana che voleva essere il più aderente possibile alla realtà. Non ci sono costruzioni, a parte l’utilizzo del montaggio per cercare di dare un po’ di ritmo. Ciò che mi ha aiutato maggiormente è stato avere personaggi interessanti e con un’immagine forte. Devo dire che la musica mi ha permesso di mantenere un ritmo abbastanza dinamico: con la montatrice infatti abbiamo cercato di alternare momenti di quotidianità, musicali e intimi, alle assemblee, che invece erano più parlate e quindi più impegnative per lo spettatore.
È stato facile entrare nell’intimità dello spazio domestico dei soggetti intervistati? O hai dovuto un po’ convincerli?
Inizialmente non è stato facile, ci ho messo un po’, perché ovviamente erano diffidenti: io ero appena arrivato, ed ero a tutti gli effetti un “esterno” che ancora non conosceva nessuno. Ciò che mi ha aiutato è aver messo fin da subito in chiaro che quello era un mezzo per testimoniare gli sviluppi della loro battaglia. Ovviamente ci sono anche momenti in cui mi mandavano a quel paese dicendomi “Dai, spegni quella videocamera!”, ma quando poi riesci a instaurare un rapporto ti puoi anche permettere di rispondergli “Tu avevi deciso di partecipare a questo progetto, io ora sto dirigendo e mi lasci fare le riprese”. A volte bisogna anche essere decisi, ovviamente capendo quali sono i limiti, e se si è convinti che quella che si ha davanti è una ripresa importante bisogna far valere la propria posizione di regista.
Un esempio sono le riprese della manifestazione che hanno permesso di scagionare i ragazzi accusati di essere gli organizzatori della protesta, di aver fatto esplodere una bomba carta e di aver picchiato ben cinque poliziotti. Durante la manifestazione ci sono state infatti delle colluttazioni con la polizia in cui sono stati picchiati proprio questi due ragazzi. Il mio primo istinto è stato quello di mettermi in mezzo per fermarli, ma ho deciso invece di continuare a riprendere e di documentare tutto.
Quindi le riprese spesso si sono rivelate essenziali per poter raccontare la verità dei ragazzi e delle ragazze che stavano portando avanti questa battaglia. Chi non ha gradito è stata naturalmente l’amministrazione condominiale, infatti mi è arrivata anche una chiamata minacciosa da parte del loro avvocato che mi diceva che se avessi pubblicato il mio documentario senza il loro consenso avrebbero preso dei provvedimenti legali. Ma io sono tranquillo con ciò che ho fatto, non c’è alcuna diffamazione, solo la realtà.

Cosa pensi che sia rimasto dopo questa esperienza?
Sicuramente questa esperienza è stata importante anche perché il movimento Rent Strike Bolognina è stato preso come esempio da altri gruppi Rent Strike internazionali. Inoltre alcune persone che non erano a conoscenza del protocollo si sono affidate a noi. Possiamo dire che questo movimento ha aiutato molte persone all’esterno del nostro gruppo a capire come funzionavano queste dinamiche.
Per quanto riguarda la distribuzione come vi state muovendo?
La distribuzione è affidata a OpenDDB e la proiezione del documentario viene accompagnata da un dibattito sul tema dell’abitare: credo sia essenziale una spiegazione politica alla fine della sua visione anche perché il suo scopo è proprio quello di aprire spazi di confronto su questo tema molto sentito a Bologna.
Vedi anche:
Note:
Tutte le immagini presenti nell’articolo sono fotogrammi tratti dal documentario Rent Strike Bolognina.
In copertina: Striscioni appesi dagli inquilini fuori dal palazzo di via Serlio 6 a Bologna.
About Author / Claudia Rosati
Laureata in Antropologia e appassionata di cinema documentario, lavora nella realizzazione di progetti audiovisivi.