Fabio Donatini è un regista e sceneggiatore. I suoi ultimi due film sono San Donato Beach e Slipknot Last Song, documentari a metà strada tra film saggio e mockumentary. Sono i primi due capitoli della “Trilogia della solitudine”.

Immagine tratta da "Slipknot Last Song"
Fabio, raccontaci di te e della tua parabola artistica.

Vivo una seconda fase della mia carriera da regista: dopo i 35 anni, una parte più dadaista si è inserita nel documentario e ho trovato più soddisfazione nel mescolare ciò che vivo tutti i giorni al documentario puro. Ho notato che al pubblico dà più emozione. E dà più emozione anche a me, perché conosco le persone che abitano i miei film e che poi diventano mie amiche.
Il lavoro nei set invece, che facevo prima dei 35 anni, era falsato da una serie di rapporti umani che a volte mi hanno fatto bene, ma che mi hanno anche ferito tantissimo.
Non mi piace lavorare con persone che vedi per tre mesi e poi mai più, se inizio un progetto è importante che le persone che collaborano con me siano anche amiche; è la concezione che ho dell’amicizia e del lavorare insieme nel mondo del Cinema.

Mi sembra interessante approfondire i legami che si creano con i protagonisti dei tuoi film. Partiamo dal primo della trilogia: San Donato Beach.

Inizio con un esempio stupido: Reza, il ragazzo persiano, ha trovato una compagna grazie al film. Si è trasferito da San Donato a Borgo Panigale e si è sposato con lei.
Stefania, in cambio di un caffè e di una sigaretta, sarebbe disposta a girare con me sempre, coi suoi interminabili silenzi; Andrea è diventato il mio migliore amico, tanto che nel secondo film Slipknot Last Song ha una parte piuttosto importante; per Zio, il signore rom, ogni volta che mi vede è una festa. L’unico con cui i rapporti si sono incrinati è Armando, perché non ha capito l’inserimento di alcune sue scene nel film. La mediazione è stata difficile e ora lui non si fida più di me. Purtroppo capita anche questo…

Con quale dinamica è scaturita l’amicizia tra te e gli attori?

Sono amicizie di persone che si incontrano al bar a raccontarsi i fatti propri durante un’estate torrida; persone a cui ho raccontato i miei problemi, cioè che mi sentivo solo e abbandonato, perché la mia compagna se ne era andata da un anno. Questo ha aperto in loro un’autostrada, per cui la loro solitudine diventava più plausibile nel momento in cui veniva raccontata, perché quello a cui la racconti ti ha appena detto che ha lo stesso problema.
Cioè: è estate, la città è vuota e si sente solo, non soltanto per amore, ma perché la città non gli dà la possibilità di incontrare qualcun altro.

A parte il lavoro di ricerca sul campo, avevi scritto un canovaccio? Da dove nasce l’idea di San Donato Beach?

Insieme allo sceneggiatore Antonello Grassi, all’autrice Piera Fiorito e al montatore Nicola Spaccucci avevamo scritto un soggetto sull’importanza visiva della periferia in estate, soprattutto dei bar in estate a Bologna. Quando gli studenti vanno via e le periferie si svuotano fino a diventare film western. L’idea era di fare un documentario western sulla solitudine in estate, un film quasi architettonico e, utilizzando musiche di Sanremo degli anni ‘60 e ‘70, ricreare una bolla del passato. Quelle case sono state costruite negli anni di Rita Pavone, di Little Tony, di Mina… e volevamo ricostruire quel mondo.
Poi invece ho incontrato queste anime perdute, che avevano i miei stessi problemi.

Quindi nella prima fase non avevi focalizzato ancora come tema la solitudine.

No, avevo focalizzato la solitudine tra i temi, ma non il principale. Il principale era legato alla situazione esistenziale e umana delle periferie italiane in estate, che io trovo delirante. Mentre migliaia di persone si spostano verso la riviera, chi resta in città vive una situazione che porta all’alcolismo, alla ludopatia, all’utilizzo di psicofarmaci… Forse i politici non possono ammettere che la situazione è fuori controllo e che va tutto bene. Invece noi come autori abbiamo il dovere di raccontare che non va tutto bene. Così come è stato necessario durante il lockdown smontare la narrazione dell’andrà tutto bene…

L’approccio che hai avuto con i protagonisti e la simpatia con queste persone è diventato un po’ il tema centrale del film: cioè il legame tra anime sole. Una malinconia che ha un sapore dolce amaro…

Il sapore dolce amaro secondo me è indispensabile, se vuoi fare un film spudoratamente sulla solitudine come San Donato Beach, per dare un po’ di speranza a chi lo vede.
Quando si creano gruppi di persone sole, questi gruppi poi macinano collettività, però se la creano da soli, senza assistenzialismo.
Non voglio passare per polemico, ma io vivo da 20 anni nel quartiere di San Donato e vedo con i miei occhi come l’assistenzialismo non funziona. Volevamo raccontare come queste persone sole hanno creato un gruppo che nel bar sapeva sorridere. Io stesso ho ricominciato a sorridere, dopo un po’.

Con il lockdown del 2020 tutto ciò è emerso con ancora più evidenza. Passiamo quindi al tuo secondo film della trilogia: Slipknot Last Song.

C’è un fatto curioso di cui mi sono accorto in seguito alla realizzazione di Slipknot Last Song: cioè che San Donato Beach è un campo lungo, un western sulla solitudine; il secondo invece è un’opera da camera sulla solitudine. L’inquadratura sembra da film horror, non sai mai quello che può succedere, visto che sono tutti mezzi busti. Da destra, sinistra, sopra e sotto può apparire qualsiasi cosa, quindi c’è la solitudine nei campi stretti.
Dentro gli interni ci sono solo i protagonisti, i quali non si aspettavano che auto-riprendersi in casa creasse loro così tanti dubbi. Sulle loro capacità emotive, sulla loro autostima, sulla forza di difendersi dalla propaganda e dall’universo dei Social. Bisogna essere bravi per difendersi dai social, perché a volte sono davvero terribili: bisogna avere un po’ di esperienza o sbattersene. Se non sai farlo c’è il rischio che ti sbranino.
Perciò nel film abbiamo trovato i due opposti: l’influencer, con i problemi che può vivere, e chi invece subisce la libertà di pensiero dei social, un’amabile anarchia, ma che a volte può ferire più di un coltello.
Abbiamo voluto dimostrare quanto sia difficile difendersi dalla solitudine all’interno di quattro mura, dai social media, dai vecchi media e da se stessi quando si è soli nel divano.
Perché le questioni del tuo passato tornano a essere presente. E il futuro è molto lontano in quei giorni.

Restiamo sulle emozioni allora: a differenza di San Donato Beach, in cui c’è un senso di comunità e tenerezza tra anime allo sbando, nel secondo film esce proprio la rabbia degli individui…

Sì, in San Donato Beach la melanconia è anche dovuta alle caratteristiche delle persone che abbiamo incontrato. Invece per Slipknot Last Song mi sono fatto inviare dei videomessaggi dai protagonisti del film, visto che eravamo chiusi per il lockdown.
I filmati avevano un grado altissimo di esplosività, incastrati in una frustrazione elevata al quadrato, o silenzio comunque rabbioso. Ho capito che quelle stanze non avevano la collettività di San Donato Beach, non erano dei bar. Dentro quelle stanze c’era solo rabbia.
Volevamo continuare, insieme al mio gruppo di autori, a portare avanti il nostro percorso: cioè che la solitudine è una brutta bestia, ma nella malinconia in fondo c’è anche del buono. Quindi abbiamo dovuto limare in montaggio e attraverso le musiche tutta la rabbia, la compulsione alle bestemmie, l’incomprensibilità data dalle comunicazioni online.
Perché la melanconia non poteva mancare, perché non riusciamo a fare un film che sia unicamente pessimista, perché alle volte ti scappa il pensiero di odiare l’umanità. Ma la odi proprio perché la vorresti migliore e quindi fai film come questo. Credo.

Immagine tratta da "Slipknot Last Song"
A livello di regia come ti sei mosso? Hai cercato di fare da filtro, di indirizzare questa rabbia oppure hai lasciato semplicemente che le cose accadessero?

Ci siamo accorti che i primi filmati che arrivavano erano di persone spaventate. Gente che non sapeva rapportarsi bene con la verità di raccontare se stessi attraverso il video messaggio. Tendevano a mostrarsi belli, puntuali, lineari… E non andava bene, perché a noi serviva la verità. Dunque ho strutturato i video che dovevano arrivarci in tre tipologie: la tipologia rabbia, quando saliva loro l’ansia e si dovevano sfogare; quando provavano degli strani momenti di euforia; infine i momenti demenziali, in cui si intrattenevano da soli per far passare il tempo. In tutti questi tre momenti avevano il compito di riprendersi.
Questa struttura mi ha permesso di avere tre beat, come si dice nella recitazione: cioè un beat basso, di rabbia, da alternare a un beat demenziale, di gente che canta, che balla, che guarda video di gattini. E in mezzo dei momenti di entusiasmo, di strano ottimismo.
Una schizofrenia che mi ha permesso di avere una dimensione chiara e puramente esistenzialista dell’essere umano, non solo durante il lockdown, ma sempre.
Quindi il lockdown diventa una scusa per raccontare gli alti e bassi dell’essere umano.

Questo mix esplosivo tra solitudine e schizofrenia nel terzo film dove ci porterà? Alle figure intere…?

(Risata) Sì, speriamo… finalmente un po’ di movimento!
Ci sono tante idee… Un tema che esiste da molti anni e che è tornato alla ribalta di recente (il caso Cospito, ndr) riguarda il concetto di solitudine nell’anarchia: l’isolamento di certe minoranze e il montare dell’odio nei confronti di chi crede nei valori dell’anarchia.
Ma non c’è solo l’anarchia, c’è un tabù ancora più tremendo di cui nessuno parla mai… ed è il suicidio. Suicidio inteso come momento in cui un individuo decide che il suo percorso su questa terra, sia in senso cristiano che in senso puramente illuminista, è terminato.
Fa paura a molti, soprattutto in un momento storico in cui stiamo uscendo dalla crisi, si celebra la green economy, il rilancio di una nuova umanità… Ma è anche vero che il suicidio esiste da sempre. Ha diritto di esistere. E ha diritto di essere analizzato e raccontato.
Perché chi fa certe scelte, dopo essere stato aiutato fino alla fine, ne ha diritto.
Ci sono tanti percorsi per uscirne, ma ho personalmente conosciuto due persone, due amici, che non avevano alternative.
Noi vorremmo analizzare queste persone, attraverso il mockumentary.

Come pensate di affrontare un tema così delicato?

Intanto non so se sarà possibile, perché c’è una legge in Italia che si chiama “istigazione al suicidio” e siamo al limite. Però se non lo indago e non applico il concetto di solitudine a questo apice, io mi perdo un pezzo della ricerca.
Ci interessa capire cosa passa per la testa di chi decide di compiere quel gesto. Come la solitudine ferisce in maniera più gravosa, facendoti decidere di lasciare il pianeta Terra.
Chiaro che per riuscirci bisognerà trovare una struttura che combini il documentario al mockumentary: è molto complicato, abbiamo provato a scriverlo più e più volte.
Ci poniamo tanti dubbi su come affrontarlo, però è anche vero che ne parlava già Dante Alighieri nel 1300… o per esempio l’antologia di Spoon River. Tanti poeti ne hanno già scritto. Certo un documentario, o quantomeno pezzi di documentario, lo rende decisamente più verista e quindi fa anche più paura. In primis a noi autori.
So che è difficile parlarne e scriverne, ma portare avanti il tabù sarebbe come dire che nelle periferie le persone stanno bene, come dire che durante la pandemia è andato tutto bene…
Allora, se vogliamo fare gli autori che realizzano opere utili a noi e al mondo, questo tabù va affrontato.

Il regista Fabio Donatini
L'allestimento della mostra "Labirinti della visione. Luigi Ghirri 1991".

In copertina: Immagine tratta da Slipknot Last Song.