Luci per Ustica è un documentario di Luciano Manuzzi dedicato all’artista Christian Boltanski e alla sua opera per il Museo per la Memoria di Ustica. Il film, sostenuto dal Fondo Regionale dell’Audiovisivo – Emilia-Romagna Film Commission, è in programma al Biografilm Festival.

Il documentario sarà in onda su RAI3 il 27 giugno prossimo. 

Qual è la genesi di questo progetto?

Mi è stato chiesto di fare un documentario dedicato alla memoria di Christian Boltanski, per ricordarlo a due anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel luglio 2021. Nel momento in cui mi sono messo al lavoro però mi mancava completamente il contesto entro cui far emergere la sua figura e il suo operato. Allora sono partito dall’installazione realizzata per il Museo per la Memoria di Ustica di Bologna, e pensata intorno alla presenza dei resti dell’aereo, ricomposti nella grande sala del museo. L’opera di Boltanski nasce dall’intuizione di Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, che aveva ritenuto che il relitto da solo non fosse sufficiente ad emozionare il pubblico senza un “apparato artistico” che potesse coinvolgerlo. Da lì l’idea di chiamare Boltanski, il quale, dopo una lunga serie di incontri e titubanze, accettò di fare questo suo intervento.

La sua caratteristica è proprio il lavoro sulla memoria, con trovate anche piuttosto forti e importanti. Quindi ha lavorato sulla memoria della strage di Ustica, e lo ha fatto in modo inimitabile, concentrandosi sulla presenza-assenza degli ottantuno passeggeri scomparsi in quella tragicissima vicenda. L’artista ha immaginato i pensieri che questi passeggeri potevano avere mentre erano in volo, e ha racchiuso i loro vestiti, i loro documenti in alcune casse, una specie di scrigno occultato, sottratto alla vista e conservato in tutta la sua segretezza. In questo si è discostato da come aveva lavorato in altre occasioni, come nella sua opera sui campi di concentramento, in cui invece i reperti erano molto visibili, esposti nella loro cruda realtà.

Nel Museo di Ustica Boltanski ha avuto anche la magnifica intuizione di utilizzare ottantuno luci pulsanti, che sono un elemento molto emozionante perché ricorda il cuore pulsante di ognuna di quelle vittime. Lavorando su tutto ciò ho pensato che il lavoro di Boltanski avrebbe avuto meno valore se non si forniva anche una serie di informazioni sui fatti, su ciò che era accaduto. Così è nata la struttura del documentario.

Daria Bonfietti, Presidente Associazione Parenti delle Vittime della strage di Ustica
Un momento delle riprese, con l'intervista al Cardinale Matteo Zuppi

Che chiave narrativa hai scelto?

Non volevo assolutamente fare un’inchiesta, perché ne esistono già di magnifiche, a partire da quella di Lucarelli, di Purgatori, e molte altre. Io ne ho viste almeno una ventina, e sono tutte lodevoli, appassionate e puntuali. Io invece sono partito dall’idea di mischiare le carte, che in un racconto vuol dire mescolare i linguaggi. Sono partito immaginando che una donna stesse per perdere quell’aereo, che poi invece riesce a prendere, per finire in fondo al mare con gli altri passeggeri.

Ho anche utilizzato una serie di voci, che già Boltanski aveva immaginato, e che io ho rimodellato in base alle mie esigenze registiche, rendendole più immediate, più comprensibili. Poi ho usato molto la grafica, che va a sottolineare in questa enorme quantità di giornali, di articoli e di informazioni i punti più essenziali. Infine, la cosa che a mio avviso rende particolarmente prezioso questo documento è la poesia finale di Mariangela Gualtieri, scritta appositamente per il film. È una poesia che ruota attorno al fulcro di questa enorme tragedia, che è la mancata verità. A distanza di 43 anni abbiamo una verità assodata, ma non conosciamo i colpevoli, non sappiamo chi, come, e perché quel missile è stato lanciato contro quell’aereo. Quindi una voce poetica che riassume questi dati e li trasforma in un sentimento di sdegno, in una sorta di j’accuse molto potente, secondo me è quell’elemento in più che dà al documentario una forza maggiore.

Quindi non avete lavorato sul caso giudiziario?

Come ti dicevo, non avevamo quell’obiettivo. L’inchiesta si propone di arrivare a una verità o alla negazione di una verità. Io mi sono affidato a quello che in questi lunghissimi anni è emerso dalle varie inchieste, quella che è ormai una verità accertata, consolidata: un missile ha colpito l’aereo, ma non si sa chi ha voluto questo. È assodato dall’inchiesta del giudice Priore che questo fatto è avvenuto nell’ambito di un atto di guerra, ma non si sa chi combattesse questa guerra né chi siano i responsabili. Ci sono solo supposizioni.

Qual è la tua visione del ruolo dell’arte nel preservare la memoria?

L’arte probabilmente è l’unico strumento capace di creare consapevolezza sulla mancanza di verità. Tutte le storie debbono avere un finale, e il finale può essere solo la verità di ciò che è accaduto. Quando questa verità si allontana, diventa nebulosa, cosa puoi ricordare? Puoi ricordare un sentimento, uno stato d’animo, uno sdegno, un’emozione, che solo l’arte è in grado di produrre.

Boltanski ha trasformato il relitto dell’aereo, che nudo e crudo era solo la testimonianza di una tragedia, in qualcosa che parla, in qualcosa di molto coinvolgente, di toccante. Molte persone si commuovono nel sentire le voci degli ultimi pensieri dei passeggeri prima di precipitare. C’è gente che si ferma davanti a quelle bare in cui sono racchiusi i vestiti e sta lì a lungo a contemplare un nero… immaginando chissà cosa… Altri, soprattutto i bambini, restano affascinati nel vedere le luci che pulsano con un ritmo che ti riporta a una vita che non c’è più.

Qual è l’elemento che ha avuto un impatto emotivo maggiore su di te?

L’emozione maggiore sicuramente l’ho provata vedendo la ricostruzione del relitto. È una cosa sconvolgente da vedere. Durante l’intervista che abbiamo fatto a Carlo Lucarelli anche lui commenta questo relitto ricostruito, che può sembrare esso stesso un’installazione. È davvero impressionante: 2500 frammenti raccolti nel mare a 3700 metri di profondità, ricomposti a uno a uno a creare un mosaico, la suggestione di qualcosa che non ha funzionato. L’aereo in frantumi, così ricomposto, è stato per me un pugno allo stomaco vero, la prima volta che l’ho visto mi ha lasciato letteralmente senza fiato. Poi c’è naturalmente l’intervento di Boltanki che ha restituito un’anima, uno spirito attorno a questo relitto.

Il tuo background è nella fiction, però in un certo tipo di fiction “impegnata”…

Si, ho lavorato molto nella fiction, ho fatto molti film televisivi sempre e comunque su problematiche civili. Questo è il mio primo documentario. Ho colto l’invito da parte di Fabrizio Zappi, direttore di RAI Documentari, in maniera entusiasta. È stata un’esperienza faticosa e bella allo stesso tempo, perché mi sono confrontato con un linguaggio che conoscevo solo per averne usufruito, nel senso che io i documentari li vedo, ma non ne avevo mai fatti. Spero non sia la prima e l’ultima esperienza in questo campo, perché in futuro intendo proseguire quel percorso. Nel mio lavoro c’è un’assonanza con il tema di questo documentario, cioè il ricordo di Boltanski che passa attraverso la ricostruzione di quello che è accaduto a Ustica. In un certo senso mi mantengo in quel solco di problematiche sociali che hanno colpito, offeso o manomesso, la coscienza civile.

Hai qualche progetto futuro che ci vuoi accennare?

Mi piacerebbe molto riuscire a fare qualcosa sull’abbandono scolastico, che in Italia è uno dei problemi principali, perché ritengo che la scuola sia la vera risorsa per il futuro. In qualche modo parlare di abbandono significa focalizzare una problematica cruciale: l’importanza di una scuola che sia capace di preparare i futuri protagonisti del nostro mondo.

Note:

Tutte le immagini i questo articolo sono tratte dalla lavorazione di “Luci per Ustica”.