Il senso di Orione per il cinema

Ci sono interviste che non nascono come tali. Non ne hanno il tempo. Assumono immediatamente la forma di un’intesa condita da una comune riflessione. Siamo al piano rialzato del Cinema Orione, nato negli anni Sessanta nei pressi dell’Ospedale Maggiore di Bologna. Accomodati in una stanza attigua allo “sgabuzzino” di proiezione, parole e musiche da “revolución cubana” del film Querido Fidel della regista Viviana Calò fanno da sottofondo a un dialogo che si carica subito di significati, più che di mere informazioni.
Enzo Setteducati cura il palinsesto d’essai da circa sette anni, da quando la sua spinta alla sperimentazione (rivolta ad una rivisitazione in chiave contemporanea del cinema come luogo d’incontro sociale), esordì con L’attesa di Piero Messina.
“Quando mi fu offerta l’opportunità di assumere questo incarico mi trovai di fronte ad un classico cinema parrocchiale, quello delle seconde e non poco frequenti terze visioni. Una realtà statica e in crisi, che tuttavia nascondeva alcune sorprese, e potenzialità pregresse non indifferenti. Fu divertente scoprire, ad esempio, che già nei suoi primi anni di vita l’Orione era stato un avamposto della cinematografia d’avanguardia, una corrente capace di narrare, attraverso il linguaggio audiovisivo, la complessità del vivere. Per un cinema ineluttabilmente legato alle figure di uno o più parroci, sapere che venivano proiettati autori “scomodi” come Pasolini mi diede la misura di quanto in avanti si fosse spinta tale sperimentazione. Stupefatto e di pari misura incoraggiato, intravidi la possibilità di portare qualcosa di nuovo, di ripensato, nel già ricco contesto culturale bolognese.”

Nel mondo del cinema gli stimoli possono arrivare da una qualsiasi parte. È questo un ventaglio estremamente ampio, che impone ad un direttore della programmazione scelte ben precise sulla “direzione” che si vuole intraprendere.
“È molto, molto stimolante. Si ha la possibilità di poter interpretare da una parte il contemporaneo, ad esempio attraverso la lettura dei giornali e delle pagine culturali, dall’altro di individuare nel pubblico stesso le tematiche che creano dibattito, o che potrebbero crearne se anche alle opere ‘minori’ fossero offerte maggiori opportunità di essere conosciute. In altri termini, qui all’Orione si può rappresentare l’evoluzione dei luoghi, delle società, delle persone stesse, quasi in tempo reale, offrendo dignità e spazio a filmati che altrimenti sarebbero spazzati via dalla grande corrente della cosiddetta industria.”
Industria che non tiene conto del luogo fisico come punto di aggregazione civica, ma come semplice area di consumo di un prodotto. È la tirannide del registratore di cassa.
“La vera ricchezza del teatro e del cinema, in un binomio di arte e luogo fisico, si nutre di ritualità uniche e difficilmente ripetibili altrove. In un’epoca molto veloce come la nostra dove tutto è sfuggevole il cinema d’essai è il mezzo perfetto per incontrare gente, argomenti, sensibilità, in ogni loro sfaccettatura e tutto questo avviene contemporaneamente alla loro evoluzione storica e culturale. In un contesto come questo anche la programmazione, come gli incontri con gli autori, segue un percorso di ragionata estemporaneità, ponendosi ben al di fuori dei dettami della distribuzione e di quelle visioni one week shot che vanno a caccia del facile incasso.”

L’Orione, come tutti gli altri cinema, dovrà pur sempre fare i conti con un bilancio d’esercizio oltre che di pubblico. Tuttavia, a volte si possono fare scoperte interessanti anche quando si parla di incassi.
“Infatti. Non sempre il ’prodotto rassicurante’, come viene chiamato quello che dovrebbe coprire, come minimo, ‘il matto’, porta a risultati economicamente vantaggiosi. Al contrario, si scopre spesso che con un pubblico sensibile e fidelizzato si può gestire un titolo “piccolo”, anche di poca spesa, proponendolo in un turno unico che dura molto più della canonica settimana di programmazione. Noi non bruciamo titoli, al contrario, spesso li proponiamo per uno o più mesi ininterrottamente; di modo che il pubblico ne parli e attiri la curiosità di altri potenziali spettatori. Come gestore mi sono reso conto di un grande valore: la possibilità di offrire film e documentari che, al netto di valori economici immediati, portano sul lungo termine ad un sicuro arricchimento culturale, e con esso anche ad un ritorno economico assolutamente sostenibile. Il nostro punto di forza è quello di poter trattare tematiche ed emozioni spesso molto particolari e forti. Venendo al cinema lo spettatore viene posto nella rara posizione di non sentirsi mai, di fatto, fuori luogo, sia metaforicamente, che fisicamente. Per far sì che questo avvenga non c’è un solo titolo che non sia stato visionato prima, cosa tutt’altro che scontata in altri contesti. È una questione di puro rispetto. Non si può accettare e proporre un’opera a ‘scatola chiusa’; qui s’impone la responsabilità civica nei confronti del luogo e delle persone che credono nella cultura”.

Questo conduce a un muoversi in maniera fortemente indipendente, se non addirittura personalizzata.
“La sala aderisce al circuito ACEC e quindi, ovviamente, avviene sempre un confronto col coordinamento delle varie sale. Tuttavia, ognuna di esse presenta una propria personalità, un proprio indirizzo. Quella più prossima a noi nell’approccio sperimentale è indubbiamente il Cinema Galliera in zona Bolognina.
Quello che caratterizza maggiormente l’Orione è la ricerca di base di un trait d’union tra quello che è possibile mettere sullo schermo e l’assoluta attualità. All’interno di più film, da proiettare in contemporanea, si ricercano una o più parole chiave, o tratti in comune, in modo da poter proporre un insieme tematico chiaramente riconoscibile. Anche il contraddittorio fra due o più opere all’interno di una stessa programmazione va bene, purché rispetti il principio d’insieme e valga l’interesse del pubblico. Si parla appunto di “piccole opere cinematografiche” che hanno in genere pochi mesi di vita e che attraverso prime visioni, spesso in esclusiva, cerchiamo di valorizzare e difendere.”
Quindi non sono previste rivisitazioni di film “storici”, rimasterizzati, o ritrovati.
“Si lavora su periodi sempre piuttosto prossimi al presente. Può essere riproposto un film che ancora ha un punto di contatto col contemporaneo e col pubblico; cito ad esempio, in periodo pre-Covid, Miserere di Babis Makridis, che è tornato sullo schermo per tre mesi consecutivi. La strategia è che i film seguano un percorso di permanenza sullo schermo che vada sfumando nel corso di un certo periodo di tempo: da una visione al giorno, si passa a una ogni due, una alla settimana, poi una al mese, fino al suo termine. Allo stesso modo la proiezione di uno stesso film segue un percorso scalare negli orari: 15:00, 16:30, 18:00, in maniera da essere fruibile il più possibile da tutti. In questo modo riusciamo anche a proporre cinque film diversi nell’arco di una sola giornata riuscendo a mantenere un medesimo filone d’interesse. Può capitare che uno stesso spettatore si guardi anche due o tre film di seguito. Ricordo una signora che uscendo mi disse più che soddisfatta: “Oggi mi sono fatta una bella scorpacciata di legami famigliari”.

In una programmazione di film che “esauriscono il loro compito” in maniera sfumata, anche l’inserimento dei nuovi titoli e delle nuove tematiche segue lo stesso processo?
“In genere si cerca di inserire progressivamente i nuovi titoli cercando di mantenere, se non altro, una certa contiguità con quelli precedenti. Se questo non dovesse risultare così evidente si procederebbe con tagli un po’ più netti.”
Un discorso a parte è invece quello delle rassegne.
“Tutto ciò che è periferico a noi interessa. Anche questo fa parte del principio cardine di accettazione della complessità. Per cui, ad esempio, abbiamo sviluppato per tre anni consecutivi un festival di cinema palestinese: film, cortometraggi, documentari. Recentemente abbiamo dato spazio al cinema del territorio puntando sull’importanza del luogo e dell’incontro. Non di rado quel che si conosce meno è proprio ciò che si trova immediatamente fuori dall’uscio di casa.”

E qui può entrare in gioco il ruolo del documentario.
“Quello del documentario è un linguaggio importante e ha sempre un suo spazio nella programmazione. Purtroppo, non riusciamo a dedicargli un giorno apposito, banalmente perché non possiamo permetterci di stare aperti tutti i giorni. Tuttavia, è un genere che trova un suo spazio con una o due proiezioni settimanali. Ci sono esempi virtuosissimi sia dal punto di vista cinematografico che da quello dell’informazione. Il documentario richiede spesso tempi di realizzazione che talvolta portano ad avere una dimensione più strettamente retrospettiva, che puramente contemporanea. Non mancano gli esempi di filmati inseribili in un programma curato con questi criteri: come Futura del 2021, o Il contatto di Andrea Dalpian, girato a pochi chilometri da Bologna. In questi due casi la contiguità col tema trattato (sogni e aspettative nel futuro dei ragazzi di oggi) o il territorio (la natura, i lupi a Monte Adone), è stata molto forte.”

Si può immaginare, in un contesto simile, un pubblico assai eterogeneo.
“Certamente. Eterogeneo e culturalmente trasversale. Qui si ritrovano, indistintamente, il ventenne universitario che va al cinema e l’ottantenne incuriosito dal nipote. Li vedi guardarsi fianco a fianco un film argentino, drammatico, come Re granchio, e la cosa non deve destare meraviglia. Non di rado proponiamo opere in lingua originale con sottotitoli, e anche queste vengono seguite con una certa assiduità. Anche qui si trova una nicchia di appassionati, di spettatori che cercano il coinvolgimento, che trovano soddisfazione nell’originalità di suoni e voci spesso incomprensibili, ma che creano la sola atmosfera possibile.”
Tuttavia, vi è una certa tendenza a preferire il filmato doppiato in lingua italiana.
“Un tasto dolente, vista la così frequente presenza di doppiaggi a dir poco ‘raffazzonati’. Necessariamente si devono fare i conti con il pubblico. Recentemente ho riempito metà sala (caso straordinario in epoca Covid) con un film islandese. Durissimo, potentissimo, tutt’altro che rassicurante, un film che in passato avrei dato solo in lingua originale sottotitolata. In tempi così incerti non si può più ragionare da puristi, in termini così dogmatici. A volte bisogna farsene una ragione.”
Più che una guerra di nervi, qui si parla di resistenza, di principi.
“Qui, come in altri luoghi di cultura e aggregazione civica, si combatte tutta quella deriva del cinema inteso come mero prodotto, contro l’industria, la catena di montaggio, il monopolio della distribuzione, dello streaming on demand che balla al suono di carte di credito. No, qui si parla di artigianato, di cose da toccare con mano, di piazze nelle quali incontrarsi. Perché non c’è cultura senza ritualità. Parlare in questi termini in un paese come il nostro, che ancora ha così tanto da offrire, significa mantenere la barra dritta al sacrosanto mantenimento e recupero di tutto ciò che rappresenta la nostra ricchezza.”
Note:
Il racconto sulle piccole grandi storie di sale resilienti in Emilia-Romagna è iniziato con l’articolo Gli amici del Vittoria / emiliodoc n.1.
In copertina: Nella cabina di proiezione del Cinema Orione. Le foto di questo articolo sono di Marco Mensa.
About Author / Claudio Tamburini
Scrittore, disegnatore, amante delle buone compagnie. Collabora con l'Associazione Amici del Vittoria.