Aemilia. Le rotonde nella nebbia è stato un progetto presentato per il Concorso di idee via Emilia dall’artista Alessandra Andrini in collaborazione con lo studio di architettura C41 di Forlì. Era il 2011 e già da tempo, almeno dalla metà degli anni novanta, le rotatorie, seppur importanti strumenti di scioglimento di nodi urbani, erano diventate, a causa del loro addobbo artistico, quasi dei no man’s land del cattivo gusto. Ciò che Alessandra Andrini con quel suo progetto propone per quelle “grandi pietre miliari con al centro l’indicazione del chilometro, visibile sia dalla strada che dai satelliti di Google” è la posa di un sottile cerchio di laser puntato verso il cielo che nelle notti e nelle giornate di nebbia potesse diventare una sorta di faro, punto di riferimento spaziale ad orientare i viaggiatori. Colonne di luce e di nebbia, poetici luminosi miraggi che attraversano e uniscono tutta l’Emilia-Romagna da Rimini a Piacenza, funzionali per altro e coerenti a una peculiarità meteorologica regionale.

Il progetto non vinse il concorso. Mi verrebbe da aggiungere “naturalmente”, come spesso accade a molti bei progetti di arte pubblica, perché più insoliti per i linguaggi usati e forse anche perché necessitano di una cura maggiore nella manutenzione che si traduce in costi maggiori. Si privilegiano sculture e installazioni più tradizionali, nelle forme e nei materiali, magari selezionati attraverso bandi per “giovani artisti” che “si accontentano” e realizzano l’opera al più basso budget possibile. Il progetto di Andrini non fu quindi realizzato, e sarebbe probabilmente rimasto sconosciuto ai più se non fosse stato riproposto in ottobre 2021, nella bella mostra Hidden displays. Progetti non realizzati a Bologna, 1975-2020, a cura di Elisabetta Modena e Valentina Rossi, al MAMbo di Bologna.

Molti dei progetti esposti, oltre a quelli di opere, mostre o pubblicazioni, erano di arte pubblica, e risultato il più delle volte di una progettazione per concorsi pubblici. In questi casi, purtroppo, come già accennato, persino opere premiate rimangono a volte non realizzate. Ma questo è un altro problema.

Torniamo invece alle rotatorie dalle quali siamo partiti.

Negli stessi giorni dell’inaugurazione di Hidden displays, alla XIV edizione di Archivi aperti, in una collaborazione con Home Movies e con l’Accademia di Belle Arti di Bologna, l’artista e regista Maurizio Finotto ha presentato il suo cortometraggio Miraggi di pianura. Ecco che in me si sono riaperte ancora vecchie riflessioni. In un fenomenologico flusso di visioni stradali, riprese da una automobile in movimento, ci arriva una sorta di rassegna delle opere d’arte realizzate nelle rotatorie lungo la via Emilia. Rumori ambientali, di traffico, frammenti di voci e notizie dalla radio accesa, un accompagnamento sonoro di rumori di vari materiali, flusso ora veloce ora più lento, accelerazioni e ralenti.

Omone che corre con un camion in spalla, casetta con ciminiera fornace gres, grappolo d’uva gigante, ruota rossa ingranaggio, spicchio di parmigiano gigante con coltello, balena spiaggiata con bimba, papaveri rossi, piramide di botti, portale ceramico, transformer, gigantesca lumaca e una più piccola mosaico scintillante, tubi colorati, grande goccia gonfia di aceto balsamico, cubi, Ferrari evoluzione, àncora blu, tubi bambù, tricolore, uomo che corre, anfore, frecce, triangoli, spirali, anche gli archistar, e ancora, e ancora, e ancora.

Questo eccesso di visioni che si affastellano ci arriva in pellicola Super 8 con un’aura di lontananza. L’immagine è a volte sgranata, a volte sfrigolante, segnata, a prendere le distanze e sfuocare tempi e luoghi di quel territorio segnato da un ipertrofico marketing aziendale e turistico, che si fa decisamente fatica a definire arte. Un territorio che è già oltre il post postmoderno e il surmoderno governato dagli eccessi percettivi e comunicativi. Siamo arrivati al capolinea di quello che Gianni Celati nel suo primo documentario Strada provinciale delle anime, del 1991, chiacchierando molto animatamente con il sindaco di Comacchio delineava come il processo di americanizzazione e mercificazione del paesaggio e la sua trasformazione in parco giochi.

In questo viaggio a ritroso che porta Maurizio Finotto alla scelta di utilizzare la tecnologia del vecchio film amatoriale io non riesco a non vedervi un tornare indietro al cinema delle origini, alle origini del cinema documentario, a Walter Ruttman di Berlino, sinfonia di una grande città (1927) o a L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov (1929). Un secolo fa. Con una differenza. Lì ogni fotogramma era un inno alla città moderna e a ciò che essa prometteva: movimento, energia, nuova tecnologia – il cinema, in quel caso -, sperimentazione, nuova bellezza, arte, vita e lavoro, modernità. Per questo spesso le forme dell’astrazione, il concentrarsi su figure e dettagli geometrici di oggetti non immediatamente riconoscibili cedevano poi progressivamente, con la macchina da presa che si allontanava, alla totalità dello spazio attorno, al paesaggio urbano, alle strade, al traffico, agli edifici e alla folla. E la città veniva abbracciata nell’entusiasmo del corpo a corpo con essa e privilegiando la realtà.

Per Maurizio Finotto è il contrario, così almeno mi sembra. E’ una fuga. In questo attraversamento della via Emilia è come se la cinepresa, cogliendo con ironica rassegnazione quella sovrabbondanza di segni avesse bisogno ogni tanto e sempre più spesso di prendere aria. La cinepresa è in fuga. Sente il bisogno di sospendere il caotico bombardamento visivo che la confonde per staccarsi dal reale e giocare con quelle veloci visioni, con i dettagli delle singole opere, alleggerirle, dissolverle, cancellarle nella loro materialità di arredo urbano e di decorazione, e trasformarle davvero in un perturbante e allucinato miraggio.

In copertina: Immagine tratta dal progetto Aemilia. Le rotonde della nebbia di Alessandra Andrini

Tutte le immagini a corredo dell’articolo sono tratte da Miraggi di Pianura di Maurizio Finotto