Il mio cammino tra le case abbandonate

“Adoro le case abbandonate”
Così mi disse il grande Tonino Guerra, quando lo incontrai e raccolsi la sua testimonianza per il film. Fu un incontro indimenticabile, ogni sua frase era un gesto poetico, mi parlò di Ezra Pound, evocando case diroccate con porte rotte e pavimenti crollati.
Ma il mio profondo interesse per i luoghi abbandonati aveva origini lontane. Da ragazzo condividevo con un’amica la curiosità per gli spazi perduti. Di notte andavamo nelle colline vicino casa, nella provincia di Reggio Emilia. Lei conosceva un posto, un villaggio abbandonato. Ci perdevamo tra le case invase dalla vegetazione, e illuminavamo con la torcia le scritte, i segni del passaggio. Si diceva che lì qualcuno facesse messe sataniche, e in effetti tra i resti della piccola chiesa si scorgeva un volto satanico dipinto da qualcuno. Alcune imposte rotte, illuminate dal faro, sembravano celare espressioni maligne.

Luoghi abitati dagli spiriti
In quello stesso posto tornammo di giorno. E tutto assunse un’atmosfera diversa. Tra le rovine scorgemmo affreschi, disegni di animali, resti di un mondo abitato. Poi, nel 2009, capitò che un amico mi portasse al Lido degli Scacchi a visitare le rovine di Villa Boccaccini, la famosa villa in stile liberty in cui fu girato da Pupi Avati La casa dalle finestre che ridono. Fui folgorato. Mi sembrava impossibile che una villa così bella fosse andata così in rovina. Filmai quei ruderi, e decisi che avrei voluto realizzare un film intero su questo argomento.
Coinvolsi Mirella Gazzotti, attrice, componente del Teatro dei Quartieri, e scoprii in lei un’altra appassionata di luoghi perduti. Così cominciammo assieme le ricerche. Forti dell’interessamento della Provincia di Reggio Emilia e della Biennale del Paesaggio, cominciammo a pianificare le riprese. Dapprima cercammo le storie, andammo ad Aguscello, nei pressi di Ferrara, dove si trovano gli inquietanti resti di un ospedale psichiatrico per bambini. Raccogliemmo storie, leggende sui luoghi abitati dagli spiriti. Cominciai a sviluppare uno stile di ripresa, che da allora non ho più lasciato, ovvero raccogliere, con lo sguardo, sia il visibile che l’invisibile, cercare nelle inquadrature qualcosa che permetta di evocare i fantasmi di chi abitò i luoghi.

L’Italia del secondo dopoguerra
Andammo sulle colline reggiane, tornammo nel villaggio che visitavo da ragazzo, e così venimmo a sapere che si chiamava Rontano, che era una riserva di caccia, con tanto di casa contadina, chiesa. Un piccolo borgo, insomma, che finì in rovina quando il proprietario si tolse la vita per dissesti finanziari. E poi incontrammo Pupi Avati, e ci facemmo raccontare da lui aneddoti e storie riguardanti il set perduto, di cui avevo già filmato le rovine.
Ci comportammo dapprima come degli investigatori, cercammo di rispondere alla domanda: perché un luogo così bello è stato abbandonato? Ben presto questa indagine ci portò più lontano. Dalle singole case, dai piccoli borghi, ci spostammo ai paesi, alle montagne, alle campagne. E così il nostro racconto si trasformò nella storia dell’Italia del secondo dopoguerra, quando il boom economico suggerì un cambiamento radicale nello stile di vita. Lavorare la terra era una vergogna. Era considerato umiliante. Così tutti si riversarono nelle città, abbandonando la campagna, spopolando l’Appennino.

Il ritorno della vita
Come quasi sempre accade nei miei documentari, abbiamo composto la sceneggiatura man mano che incontravamo le persone. Così determinante è stato l’incontro con Marco Revelli e Antonella Tarpino. Marco, figlio di Nuto, sta cercando di riportare la vita a Paraloup, un piccolo borgo della Valle Stura in Piemonte, simbolo della lotta partigiana e territorio di quel mondo dei vinti raccontato da Nuto Revelli. Quel mondo, che già cominciava a perdersi nell’epoca in cui i partigiani salirono su quelle valli per la Resistenza, aveva avuto il colpo di grazia appunto tra gli anni ’50 e gli anni ’60.
Così Marco Revelli e Antonella Tarpino ci raccontarono di come si fossero spinti, con la fondazione dedicata al padre di Marco, ad acquistare una ad una le case diroccate di Paraloup, per far rivivere il villaggio, con un museo, alloggi, la riattivazione di alcuni mestieri. Antonella ci parlò del leggendario antropologo Vito Teti, autore di una sorta di enciclopedia dell’abbandono in Calabria. Lei lo cercava da tempo, ma senza fortuna. Così ci mettemmo al lavoro, e fummo fortunati. Trovammo al telefono Teti, e pianificammo un viaggio per incontrarlo. Venne con noi anche Antonella Tarpino.

Paesi doppi
Ci addentrammo nel profondo del racconto. In Calabria, la mancanza di lavoro e il malaffare hanno portato all’abbandono dell’Aspromonte. Si sono così generati dei paesi doppi, ovvero due luoghi con lo stesso nome: gli uni, magnifiche rovine, abbandonati tra le montagne, e gli altri, in riva al mare, simbolo della speculazione edilizia, del costruire senza criterio e senza alcuna ricerca del bello.
Nei paesi abbandonati, la sola chiesa era stata restaurata, per conservare l’abitudine di raggiungerla in corteo, col santo in spalla, per la festa del patrono, una volta all’anno. Scoprii così il senso di quel viaggio, in quel concentrato di bellezza perduta e di case mal costruite, con pilastri di cemento che guardano al cielo in attesa di essere completati da un nuovo piano che probabilmente non verrà mai realizzato.
Completammo il nostro film raccogliendo alcuni buoni esempi, cascine recuperate e restituite all’abitare, borghi trasformati in alberghi diffusi, la storia di Riace che attraverso l’accoglienza dei migranti ha riportato in vita il vecchio paese, altrimenti perduto.
Il racconto di Tonino Guerra
Da un racconto dei luoghi abbandonati, lasciandoci portare dalle storie, eravamo finiti per raccontare il tentativo di recupero, il senso di tante storie private che d’improvviso diventavano pubbliche.
Certo, non è mancato lo spazio per cantare le rovine. Sapevamo che Tonino Guerra era un profondo conoscitore di case abbandonate. Così andammo ad incontrarlo, nella sua casa a Pennabilli, nell’entroterra della provincia di Rimini, e lui ci confermò il suo punto di vista. Ci illuminò anche su un’altra questione. Ci disse che è vero che i contadini lasciarono le terre abbagliati dal sogno di una vita migliore, ma ci disse anche che noi, guardando quelle case, pensiamo a un mondo armonico, in simbiosi con la natura, in cui la costruzione dell’uomo dialoga con il paesaggio.
Ma siamo sicuri che i contadini, che abitavano quelle case, potessero rendersi conto di quella bellezza? Non è piuttosto una sovrastruttura che vediamo noi con gli occhi di oggi? Perché è innegabile, era dura la vita contadina. Stare al freddo, alzarsi la mattina molto presto per seguire gli animali. Quanta di quella bellezza fa parte di uno sguardo alterato da una vita agiata e comoda, come quella che conduciamo noi ora?

Il cammino con Rumiz
Quanto appreso durante le riprese, finì naturalmente all’interno del film, seguendo un filo che portava dalle storie perdute fino al recupero, intervallato da riflessioni corali sull’abbandono. Ma sentivo che non mi bastava.
Il film Case abbandonate, per particolari arabeschi del destino, fu il viatico per conoscere Paolo Rumiz, grande scrittore e giornalista. Con Paolo ebbe inizio una collaborazione artistica che mi portò a realizzare con lui numerosi documentari di viaggio. Il primo di questi racconti fu proprio sui luoghi abbandonati. Le dimore del vento, questo il titolo del film, trattava di fatto i medesimi argomenti di Case abbandonate, ma attraverso un punto di vista al contempo più poetico ed avventuroso. Ci muovemmo tra fari abbandonati, fabbriche dismesse, villaggi istriani sfollati. Raccontammo anche le torture fasciste in case che furono poi demolite per nascondere l’onta di quanto tragicamente avvenuto.
Ci muovemmo tra le rovine causate dal terremoto dell’Aquila, e qualche anno più tardi avremmo insieme dedicato un altro viaggio all’attraversamento a piedi delle aree colpite dal sisma in Lazio, in Umbria e nelle Marche, tra Amatrice e Visso. Lì vedemmo case sbriciolate, ma lo stesso andammo a cercare chi resisteva tra le rovine.
Paolo Rumiz, prima che lo conoscessi, aveva ottenuto un enorme successo nel 2006, per il suo viaggio lungo tutta la dorsale appenninica a bordo di una Topolino. Nel 2017 l’emittente televisiva di Feltrinelli, LaEffe, mi chiese di realizzare un inedito, in compagnia di Paolo Rumiz. Così proposi loro di fare una sorta di remake del viaggio leggendario di Rumiz. Battezzai quel mio nuovo lavoro Ritorno sui Monti Naviganti. E di ritorno, proprio, si trattava. Ritorno ai luoghi del viaggio di Paolo, certamente, ma anche ritorno agli argomenti affrontati in Case abbandonate. Si trattava quindi di andare a cercare le esperienze di ritorno alla montagna.

La cura della terra
Infatti, se in Case abbandonate il racconto si era concentrato sui luoghi disabitati e su qualche tentativo di recupero, ora si trattava di andare a cercare chi aveva rifiutato quello spostamento in massa nelle città, per abitare o riabitare le case dei propri nonni.
E mi accorsi che di storie da raccontare ce n’erano veramente tante. Tornai certamente, in luoghi che avevo già esplorato nel 2010, e incontrai anche alcuni testimoni che per questo film aggiornarono le loro testimonianze. Ma soprattutto andai a cercare i racconti di chi magari si era allontanato dalla terra di origine, aveva studiato, si era laureato, e poi aveva scelto di tornare alla montagna. Perché una cosa, di certo, è successa.
Oggi curare la terra non è più umiliante, non è più un tabù. E tra mille contraddizioni sta crescendo in noi la consapevolezza, forse tardiva, dell’importanza di curare la terra, per preservare la nostra stessa sopravvivenza, per arginare i cambiamenti climatici. In chi torna a riabitare i luoghi perduti forse c’è quella capacità di riconoscere la bellezza che, come diceva Tonino Guerra, i nostri avi non potevano avere.
In copertina: Rio Petroso (FC) Foto Marco Mensa
About Author / Alessandro Scillitani
Regista e documentarista, dirige il Reggio Film Festival sin dalla prima edizione. Collabora continuativamente con lo scrittore Paolo Rumiz alla produzione di documentari.