Valentina Monti, documentarista bolognese, parla di sé e del suo ventennale percorso, partendo dagli inizi con Studio Azzurro fino al recente Così Soli, realizzato durante il primo lockdown italiano.
Nei lavori di Valentina c’è sempre il presente, raccontato però da luoghi diversi e con una emancipazione narrativa che l’ha portata a compiere passi coraggiosi, a volteggiare sul trapezio dell’emozione e del rigore formale dando un punto di vista nitido da orizzonti altrimenti distanti. Le sue immagini zeppe di gesti quotidiani diventano ritmo di vita, sguardi che scrutano finché possono i dettagli del mondo in punta di piedi, restituendoci dignità e luce.

Fin da Radio La Colifata, esordio argentino del 2004 firmato a quattro mani con Mirta Morrone, dove i toni del bianco e nero si rivelarono perfetti per raccontare la psichiatria con ilarità e impegno civile, un senso di riflessione intimo e consapevole l’ha accompagnata in tanti angoli lontani del mondo come Uganda, Rio de Janeiro, Afghanistan.

Vicende di donne dalle più svariate angolature, assolute protagoniste oppure essenziali chiavi interpretative in un impianto più corale. Sono cronache che scavano nel sentimento e nella verità in modo equilibrato, riscatti sociali dirompenti che esplodono attraverso le onde radio afghane di Girls On The Air e le sfilate di moda brasiliane di Daspu.

Negli ultimi anni per Valentina c’è un ritorno alle origini, con produzioni nazionali che la avvicinano al suo territorio dopo questa intensa ricerca itinerante, e l’inizio dell’attività di autrice televisiva, per format di successo come “Il Collegio”.

Un nascente interesse verso il materiale d’archivio si concretizza con Circle, realizzato con pellicole del fondo della famiglia Togni, che aggiunge qualcosa di nuovo ad una già ricca gamma di sfumature presente nei suoi progetti passati.

L’ultimo Così Soli è un drammatico resoconto della solitudine generata dal Covid, probabilmente la metafora di un passaggio dalla distanza socioculturale dell’economia a quella fisica imposta dalla pandemia.

Formazione, ispirazione, seduzione e attrazione: cosa ti ha spinto verso i primi passi verso il documentario?

Intorno ai 19 anni mi divertivo in vacanza con la mia Hi-8, durante i viaggi che facevo con i miei genitori. Dopo la laurea in Lettere all’Università di Bologna ho seguito uno dei tanti corsi professionali che il FSE offriva a quei tempi, di carattere piuttosto tecnico e che mi ha dato l’opportunità di uno stage presso Studio Azzurro di Milano.

Lo scelsi perché mi stavo laureando sulla video arte del Novecento e perché possedeva un carattere più artistico rispetto a televisione e cinema che vantavano un appeal e un seguito molto maggiori. In sei mesi ho avuto modo di lavorare su vari progetti con il compianto Paolo Rosa, un maestro e un amico davvero indispensabile per la mia crescita ad ogni livello. Quello più importante è stato il Museo Audiovisivo della Resistenza nel 2000, forse uno dei primi esperimenti di museo interattivo. Era composto da tavoli con sopra dei prototipi in legno a forma di libro: sfogliandoli idealmente con le dita venivano proiettate le testimonianze dei partigiani con le quale ripercorrere eventi e tematiche del conflitto.

Quell’esperienza mi ha fatto comprendere in modo definitivo che mi interessava più la realtà della finzione, sia dal punto di vista narrativo sia da quello visuale, ma anche che la mia formazione tecnica e pratica doveva essere costantemente aggiornata.

È stata la partecipazione ad Esodoc a farmi entrare dentro il mondo che volevo, quello composto da un team di documentaristi eterogeneo con cui scambiare idee e visioni. Gli insegnanti sono registi, produttori e tecnici provenienti da ogni parte di Europa, situazione perfetta per ampliare al massimo le prospettive di un artista. Un corso tuttora in vita e in salute, organizzato da diversi partner, tra cui la bolzanina Zelig , e che consiglio a chiunque si approcci oggi al documentario.

C’è da dire che in Italia, all’inizio del nuovo millennio, non c’era una cultura oltre la fiction e bastava uscire dai confini per rendersene conto. Oggi non è più così ma il documentario ha faticato non poco ad imporsi nel nostro paese, rimanendo isolato in specifici settori e per nulla compreso, fino all’arrivo di piattaforme inedite che hanno allargato anche il bacino dei finanziamenti, prima reperibili soltanto all’estero oppure di origine ministeriale, comunque molto difficili da ottenere.

Radio La Colifata, il mio primo lavoro, è stata una produzione totalmente indipendente che mi ha condotto in un ospedale psichiatrico in Argentina per narrare della radio come strumento terapeutico. Mi sono recata lì durante le elezioni presidenziali, le ultime per Carlos Menem, ed abbiamo così potuto filmare un seggio elettorale simbolico (i malati psichiatrici non hanno diritto di voto) posto all’interno dell’istituto da uno psicologo illuminato, Alfredo Olivera. Un esperimento temerario e meraviglioso che aveva l’intento di restituire a chi l’ha persa un’opinione e una coscienza politica. Il risultato dell’urna fu la cosa più eclatante: secondo me, la scoperta che i sani di mente e i malati votano gli stessi partiti è una testimonianza inoppugnabile della labilità del confine tra normalità e follia, nonché dell’assurdità di questo crudele tipo di sistema detentivo che accomuna molte nazioni al mondo.

Radio La Colifata è stato un biglietto da visita fatto davvero con il cuore, girato in prima persona senza supporti tecnici, con cui ho voluto dimostrare di saper meritare la fiducia di una produzione o di un finanziamento. Ha partecipato a diversi festival, unici luoghi in cui allora si potevano vedere certi prodotti vista l’assenza delle piattaforme digitali a cui siamo abituati. C’era una idea forte con la quale volevo esprimere tutta la mia voglia di passare dall’amatoriale al professionale, di farne un vero mestiere.

Infatti con Girls On The Air avviene proprio questo. Come ricordi quella esperienza di ingresso in un sistema produttivo e distributivo più complesso?

Sono partita per l’Afghanistan con l’intenzione di proseguire l’approccio con i media liberi avuto in Argentina. In luoghi di conflitto o disagiati, in cui l’analfabetismo è molto presente, la radio è più adatta per veicolare i concetti rispetto alla carta stampata perciò ho voluto dare volto alla voce, far vedere cosa c’è dietro. Ho lavorato con un vero direttore della fotografia, Alessio Valori, che oggi è anche mio compagno, e un fonico di talento per rendere ancora più incisivo il messaggio che volevo lanciare. Abbiamo ottenuto un finanziamento per lo sviluppo e vinto un fondo media europeo, coinvolgendo anche il glorioso Istituto Luce come distributore. Ha richiesto molto tempo ma abbiamo rispettato tutti gli iter necessari. Lo considero il primo prodotto compiuto, quello che mi ha dato per la prima volta tutte le risposte che cercavo.

Da questa situazione composta da riprese originali come sei arrivata nel tempo ad utilizzare materiale di archivio sulla cui base hai costruito Circle?

Il passaggio e l’interazione con i materiali di archivio nascono dalla passione per il circo, spettacolo popolare che mi ha entusiasmato fin da bambina, con il suo alone anacronistico e dannato. L’occasione è arrivata dagli amici di Home Movies. Avevo vinto un assegno di ricerca all’Università di Reggio Emilia, rincorrendo una carriera accademica che poi ho abbandonato, dove ho conosciuto Paolo Simoni, il presidente dell’associazione. Grazie a lui ho avuto accesso al fondo audiovisivo della famiglia Togni, composto da numerose bobine in 8mm in pessime condizioni di conservazione. Sono proprio queste imperfezioni, questi impasti ed emulsioni di colori generati dal tempo a dare al tutto fascino e potere evocativo.

Insieme a Claudio Giapponesi di Kinè decidiamo quasi subito di farne un’opera compiuta. Circle è un prodotto che ho fatto a partire dall’archivio, dalla mia esaltazione dopo averne visionato i materiali grezzi, tessendo solo in un secondo momento la trama della storia.

La fase di ricerca, imprescindibile per un documentarista, mi ha guidato verso l’universo circense in trasferte a stretto contatto con i componenti della famiglia e con gli artisti che ne fanno parte. In quei momenti ho cercato il presente, ho tentato di slegare l’argomento dal peso degli anni e delle tradizioni affidando a una donna il ruolo di guida in contrasto con l’assetto patriarcale che domina storicamente le loro relazioni.

E’ stato necessario ma bellissimo instaurare un rapporto di forte empatia tra me e Fiorenza, l’anziano personaggio che accompagna lo spettatore nella narrazione: i giorni passati con lei a Reggio Emilia dentro la sua roulotte sono il ricordo più struggente che conservo di tutta la genesi di questo lavoro, specie da quando è scomparsa.

La sterzata più imprevedibile e brusca della tua carriera è recente e legata al Covid. Dopo il viaggio e la memoria come sei arrivata alla cronaca dell’assenza di “Così Soli”?

Era impossibile per me stare a guardare questo evento che ha sconvolto l’umanità senza darne una interpretazione. Lo abbiamo fatto a quattro mani con Alessio Valori, data l’impossibilità di coinvolgere altri e le difficoltà di movimento imposte. Kinè, in qualità di produttore, ci ha dato una mano notevole procurandoci permessi per gli spostamenti e altri supporti senza i quali non sarebbe stato fatto. Alcuni amici, tra cui Mirco Fabbri, ci hanno aiutato al momento della post produzione.

Il mondo che si ferma e la morte che si fa solitudine, un aspetto di cui si parlava poco essendo tutti troppo concentrati sui numeri piuttosto che sul lato umano. È stata una rottura radicale con il mio modo di fare documentari fino ad allora: girare per una Bergamo spettrale è quanto di più diverso abbia potuto sperimentare, abituata come ero a far parlare i volti e a descrivere situazioni sociali.

Così Soli è dominato dall’angoscia, sentimento che ha sovrastato tutti gli altri durante la settimana di lavorazione. Volendo trovare un angolo di osservazione coerente ho pensato alle pompe funebri, i più competenti nel dare una opinione sulla morte in quel momento. Un fil rouge, rappresentato da Roberta che ci introduce a luoghi e storie così tragiche, era irrinunciabile.

L’approdo a Discovery Channel è avvenuto per interessamento di Daria Bignardi che lo ha mostrato durante la sua trasmissione “L’Assedio” ma credo possa avere tante altre collocazioni in futuro. La vita di questo film è appena iniziata e tra dieci anni forse avrà ancora più senso. Mi considero comunque un testimone del presente: l’ho cercato sempre, sforzandomi di non raccontare mai al passato. Anche Circle, che è incentrato su concetti lontani nel tempo, ha un occhio puntato sull’oggi.

Fotogramma tratto da "Così soli"

Hai dei modelli culturali di riferimento che possono aver influenzato il tuo modo di esprimerti?

Non ho un nome né un’opera che mi ha indirizzato in maniera decisiva se non un libro, che porto sempre con me da quando mi fu regalato da bambina. Sto parlando di Lettere dal domani, una raccolta di corrispondenza di bambini dai 7 ai 12 anni provenienti da tutto il mondo e firmata da Romano Battaglia. La commistione tra dramma e poesia lì presente ha dato vigore alla mia passione per la ricerca della realtà e non posso escludere, un giorno, di farci sopra un lavoro. Da quelle parole si può immaginare e capire tantissimo, percependo esperienze straordinarie come la quotidianità, i desideri immacolati non filtrati dall’età, il potere evocativo della purezza.

Cosa hai in cantiere che puoi anticiparci? Dove e come hai deciso di raccontare le tue prossime storie?

Come mamma di due bambine di sei e otto anni ho dovuto rallentare l’iperattività in cui ero immersa prima.Quattro anni fa mi sono definitivamente trasferita a Milano dove ho cominciato l’attività di autrice per programmi televisivi, una nuova sfida in cui mi sono buttata con impegno.

La partecipazione a Il Collegio è stata emozionante perché credo che questo tipo di reality show sia la cosa più vicina alle mie attitudini, legate strettamente al documentario. Riesco a stare sul set e partecipare al montaggio (di solito in televisione le figure di autore e regista non convivono come nel cinema), affrontando la linearità del discorso con schemi precisi di sviluppo. In questi giorni stiamo preparando la seconda stagione di Cash Or Trash, riadattando un celebre format inglese sulla seconda vita che possono prendere gli oggetti.

Insieme a Maria Grazia Moncada stiamo scrivendo una docuserie sulla diversità ma non è ancora in fase avanzata. Punto sulla serialità perché è molto richiesta dal pubblico e dà possibilità economiche e creative gigantesche. Essere anche solo con un piede dentro a queste dinamiche, a cui molte forme artistiche si stanno più o meno conformando, lo ritengo molto stimolante. Gli sforzi di tutti i grandi broadcaster internazionali in questa direzione stanno dando i loro frutti, se pensiamo che solo venti anni fa modelli come questi non erano nemmeno proponibili, soprattutto in Italia.

È il momento giusto per fare cose belle e io sono molto ottimista per il futuro.