Da Bologna all’Ucraina via Barcellona: conversazione con Luca Vacchi
Luca Vacchi è un personaggio davvero singolare ed eclettico nel panorama audiovisivo europeo. Partendo dalla sua città, Bologna, e precisamente dal quartiere Marco Polo, ha sviluppato il proprio orizzonte artistico prevalentemente come aiuto regista, figura spesso indispensabile che consente di applicarsi su diversi sistemi produttivi e sviluppare una forte capacità di adattamento.
Più attivo in Spagna che in Italia (dal suo arrivo a Barcellona è dietro le quinte in circa 500 tra videoclip, spot e film) ha avuto l’occasione di lavorare a fianco di registi europei del calibro di Jaume Balaguerò, Paolo Sorrentino, Dani Benmayor, Giovanni Veronesi e Isabel Coixet. Con quest’ultima ha stretto un sodalizio pluriennale e girato numerosi lungometraggi tra cui The Bookshop, vincitore del premio Goya, e il thriller romantico It snows in Benidorm, interpretato da Timothy Spall e prodotto dalla El Deseo di Agustin e Pedro Almodovar.
Per quanto riguarda i suoi progetti personali come regista e sceneggiatore ci piace ricordare i cortometraggi Kick the sky e La voce di Hans, entrambi contraddistinti da un certo rigore formale e dall’attenzione per i temi sociali raccontati con insolita originalità e commistione di generi.
In questo periodo Luca è in post produzione con un reportage che sa di viva attualità, con l’Ucraina e la sua cultura come protagonisti: una cronaca di vissuto a Bucha, nei dintorni di Kiev, in cui mescola una sapiente capacità di osservazione con una costante cura delle immagini. Un racconto iniziato prima della guerra e che ha già un epilogo decisamente amaro, visto il conflitto in corso che ha recentemente devastato la città, rendendola simbolo straziante delle atrocità e della follia umana.

Nonostante il tuo nomadismo professionale, ti sei formato a Bologna. Perché hai deciso di lasciare la tua città?
Parto con una scena ad effetto come si farebbe in un film. È il 1992. Non esiste il web, non abbiamo lo smartphone. Entro in un InfoGiovani di periferia e chiedo come fare per avvicinarmi al mondo del cinema. L’impiegato mi scruta sorpreso, apre un cassetto e tira fuori le pagine gialle. Le sfoglia, quasi con timore, e dopo qualche minuto, desolato, mi dice:“Devi andare a Roma!” Io a Roma, però, contatti non ne avevo e neanche i soldi per starci, quindi finisco per iscrivermi al DAMS. Dopo due anni di teoria cinematografica e proiezioni, affamato di pratica, comincio a frequentare un corso di specialista in applicazioni audiovisive a Imola. Grazie allo stage, organizzato presso una casa di produzione, la Tark Film di Milano, riesco a mettere piede sul set di un video musicale e dare così il via alla mia carriera professionale, poi proseguita altrove.
A Bologna partecipo al progetto Bi-Vision, uno studio di produzione indipendente che univa un’avanzata creatività low budget alle esigenze del mercato, dominato dai filmati promozionali e istituzionali ma pure assolutamente imprevedibile nei suoi repentini sviluppi. E’ un periodo “pre tecnologico” con grandi difficoltà per riuscire a entrare nel circuito professionale derivanti proprio dalla differenza di tecnologia disponibile. Oggi, con un iPhone, è tutto più semplice.
Inoltre, a fine millennio arrivò la prima crisi vera del settore e quel poco che sopravviveva a Bologna di un certo livello cominciò a chiudere i battenti obbligando maestranze, autori e registi a lasciare la città. Nonostante la mia preparazione cinematografica fui folgorato dal linguaggio rapido ma complesso del videoclip e del commercial. Grazie a un incontro casuale, avvenuto a Londra nel 1999, decisi di trasferirmi a Barcellona, dove il settore era molto più florido del nostro e la richiesta di competenze professionali era in forte crescita.
Andarsene da Bologna non fu per nulla facile ma, quando si trovano solo porte chiuse, non ti rimane che aprirne tu una nuova. Dopo tanti anni devo dire che sono contento di averlo fatto: l’esperienza all’estero mi ha spinto a mettermi in gioco e a tirare fuori una determinazione che non credevo di avere, permettendomi di raggiungere obiettivi ambiziosi, che in ambiente regionale sarebbero stati impensabili.


In cosa consiste il mestiere di aiuto regista e perché è così importante nel meccanismo produttivo?
L’aiuto regista è l’anello di congiunzione, talvolta discreto talvolta molto evidente, tra la produzione, il regista e tutti gli altri dipartimenti. Tra le sue mansioni principali c’è quella di mantenere costantemente aggiornati tutti i membri della troupe e il cast riguardo le necessità di regia, i cambi alla sceneggiatura e le giornate di lavoro, ma anche quella di stendere un piano di lavorazione fattibile, con orari, numero di sequenze giornaliere da girare, etc. È sua responsabilità far rispettare alla lettera questo piano durante le riprese.
È un ruolo che richiede numerose qualità e che poggia sul delicato equilibrio tra autorevolezza ed empatia oltre che su una gerarchia ferrea. Attori e tecnici devono arrivare a rispettarti e a credere in te se si vuole che la macchina funzioni al meglio, con un buon ritmo, e che sia sempre pronta a reagire ai continui e molteplici imprevisti che si presentano durante una produzione. Non basta avere un piano B, ci vuole spesso anche un C e un D. Ovviamente la tipologia di lavoro cambia in base al tipo di produzione a cui si prende parte. Un video musicale o uno spot pubblicitario richiedono altre tempistiche e conoscenze rispetto ad un film con un cast internazionale o a una serie TV. Ancora oggi, quando m’imbatto nella descrizione del ruolo dell’aiuto regista fatta da colleghi stranieri, mi pare si parli di un supereroe.
Il fascino di questo mestiere consiste proprio nel fatto che ogni lavoro è sempre tecnicamente e ideologicamente differente dal precedente e non si finisce mai d’imparare qualcosa, persino dall’improvvisazione. Dalle tecniche di ripresa, agli effetti speciali, al dover calcolare addirittura l’innalzamento di una marea per non finire con macchina da presa e troupe sott’acqua. Ci si può trovare a girare un film indipendente quasi senza permessi con una troupe ridotta al minimo, magari con l’effetto pioggia fatto con un tubo allacciato all’impianto di un bar, e a preparare il giorno seguente una serie tv con 11 settimane di riprese tra Francia, Italia, Spagna e Giappone per HBO.
Il vero miracolo, per un aiuto regista, avviene quando si riesce a creare una forte intesa tra tutti i membri della troupe e a far fluire le riprese in un’atmosfera serena e concentrata allo stesso tempo. E questo accade in particolar modo quando ci si trova a raccontare grandi storie, con professionisti capaci di mettere da parte il proprio ego e di sentire la responsabilità del proprio ruolo senza distinzione d’importanza.

Dopo un lungo e variegato percorso professionale ti stai avvicinando al documentario. Cosa ti aspetti da questa esperienza?
Nel campo documentaristico il ruolo dell’aiuto regista spesso non viene ritenuto indispensabile per problemi di budget, ed è solitamente la produzione a farsi carico dell’intera organizzazione tecnica.
Il documentario è però fonte di grande interesse per me, al punto da farmi cercare storie da raccontare mettendomi in gioco anche come autore. Credo che la bellezza e l’unicità di questo linguaggio stiano nel fatto che il racconto cambia forma nel corso delle riprese: spesso è ciò che viene filmato a prendere per mano l’autore e a guidarlo in strade inesplorate. Si deve essere pronti a lasciare che il caso aggiunga i suoi contributi alla storia, nonostante possa risultare complicato agli inizi accettare di non poter controllare tutto come d’abitudine.
La flessibilità e capacità d’improvvisazione, come anche la disciplina, sono necessarie se si vuol mantenere vivo il lato artistico e creativo della professione e non ridurlo solo a un fatto di rigida esecuzione. La magia delle storie reali è quella di farti sentire parte della vita di persone fino a poco prima sconosciute, che acconsentono al fatto che tu divenga custode e autore della loro immagine/esistenza filmica. Credo che ci sia qualcosa di profondamente sacro in questo rituale.
Le mie esperienze sono in divenire proprio in questo periodo: due in particolar modo, entrambe in fase di finalizzazione.
La prima riguarda un documentario spagnolo prodotto da Gris Medio e realizzato da Efthymia Zymvragaki, A sad and vulgar loner. Uno studio attuale e intimo sul tema della violenza domestica, raccontato in modo audace dal punto di vista sia della vittima che dell’autore del reato. Un progetto che ritengo controverso e brillante e che sicuramente non mancherà di generare riflessioni e dibattiti accesi.
Il secondo è un reportage di cui ho curato anche la regia, Igor Maltsev – una rondine non fa primavera, sulla vita di un ex-militare sovietico che dopo la caduta del Muro e la disgregazione dell’URSS decide di lasciare l’esercito, sfidando i rigidi apparati politici e le gerarchie militari, per dedicarsi interamente ad aiutare gli orfani di un piccolo internato a poche miglia da Kiev. Orfanotrofio che, grazie alle migliorie introdotte dallo stesso Maltsev insieme al giovane direttore in carica, diventa in breve tempo un modello da imitare per l’intera Ucraina.

Cosa c’è nel tuo futuro? Hai qualche progetto che puoi anticiparci?
Posso citare una battuta di Woody Allen? “Se vuoi far ridere Dio raccontagli i tuoi progetti”. Detto questo, nel futuro di aiuto regista c’è la volontà di ricominciare in Italia, perché dopo tanti anni in giro sono tornato a casa (anche se a Barcellona mantengo un posto per quando entra qualche proposta interessante).
Sono al lavoro sulla sceneggiatura di un lungometraggio di finzione, che desidererei anche poter firmare stavolta come regista unico, e alle prese con lo sviluppo di una serie TV
Sono fuori da qualsiasi zona di comfort e questo mi permette di affrontare con sufficiente distacco le sfide richieste dai linguaggi contemporanei. Durante i vent’anni come aiuto regista mi sono anche appassionato alla scrittura, sperando col tempo di riuscire a mettere insieme un gruppo di lavoro affiatato con cui poter portare avanti progetti comuni.
Ancora una volta si è tornati a parlare di Bologna come di un possibile terzo polo cinematografico: spero sia la volta buona e credo che sarebbe una buona idea organizzare corsi di aiuto regia seri e professionali, che a mio avviso mancano sul territorio emiliano, in modo che i giovani arrivino sui set più preparati rispetto a come lo eravamo noi. Mi rendo conto che sono tanti propositi, ma tutto può accadere dopo aver pronunciato la parola magica per eccellenza: “…Action!”.

In copertina: Immagine tratta da “Kick the sky” di Luca Vacchi
About Author / Stefano Cocchi
Produttore, saggista e studioso di cinema, autore dei libri "Putain De Film" (Dynit) e "Schermi (H)Ardenti" (Profondo Rosso).