Il futuro sconosciuto di Sarura
Il film Sarura – The future is an unknown place è l’ultima fatica del collettivo Smk Videofactory, casa di produzione bolognese, attiva sul territorio nella realizzazione di documentari di denuncia sociale e nella distribuzione di contenuti on demand attraverso la piattaforma OpenDDB (distribuzioni dal basso).
Sarura racconta le vicende di un gruppo di giovani palestinesi, Youth of Sumud (La gioventù della perseveranza), che combattono l’occupazione militare israeliana tramite l’uso di videocamere e azioni nonviolente. Nella grotta di Sarura, vicino al villaggio di At-Tuwani, hanno creato un nuovo avamposto verso le colonie israeliane. È lì che dopo 10 anni ritornano i documentaristi di Smk Videofactory.
Ne parliamo con uno di loro: il regista Nicola Zambelli.
Per parlare di Sarura, è bene fare un passo indietro al vostro primo film Tomorrow’s Land. Vuoi raccontarci come era nato quel progetto?
Quando siamo stati in Palestina nel 2010, era nato tutto un po’ per caso, dalla richiesta di un amico di Paco (Mariani, produttore di Sarura e co-regista di Tomorrow’s Land, ndr).
Il suo amico era volontario per Operazione Colomba nel villaggio di At-Tuwani e sapendo che noi ci occupavamo di video e mediattivismo, ci ha convinti ad andare lì. Siamo partiti, nonostante fossimo molto giovani e alle prime armi.
Affrontare un tema così complesso come la situazione Palestinese, stando per settimane in un villaggio sperduto… Insomma, non eravamo così sicuri di farcela. Inoltre ci trovammo di fronte a un sacco di materiale d’archivio che Operazione Colomba aveva prodotto: materiale registrato con delle handycam, per denunciare i soprusi che subivano i pastori palestinesi.
Da lì è nato il documentario, e abbiamo promesso agli esponenti del comitato di lotta popolare che saremmo tornati in Europa per raccontare la loro storia. E così fu.
Siccome eravamo abbastanza squattrinati, per coprire le spese adottammo la strategia dell’autofinanziamento: abbiamo organizzato cene, incontri, dibattiti per raccogliere i fondi. Un metodo di produzione che nel tempo si è evoluto nella piattaforma OpenDDB. Diciamo che Tomorrow’s Land è stato generativo della modalità di cinema in cui crediamo.

Nel corso degli anni siete riusciti a mantenere i legami con la comunità di At-Tuwani?
In realtà non siamo rimasti molto in contatto, perché 10 anni fa FaceBook non si utilizzava, i social network non esistevano. Non c’erano tanti strumenti che oggi invece, anche per Sarura, ci hanno consentito di realizzare il film nel modo in cui lo abbiamo realizzato. Perché con Whatsapp abbiamo continuato a restare in contatto con i ragazzi protagonisti del film quasi quotidianamente. Invece allora no, allora eravamo molto più distanti.
Non avevamo tanti rapporti con quelli che sono poi diventati i protagonisti di Sarura, anche perché all’epoca erano solo bambini. I contatti li avevamo con gli attivisti di Operazione Colomba, che ci aggiornavano sull’evoluzione della situazione.

In Sarura ritornate negli stessi luoghi dopo 10 anni. Quali sono state le vostre impressioni rispetto a come lo avevate lasciato? E cosa è cambiato nel vostro sguardo?
Quando siamo tornati ad At-Tuwani 3 anni fa, era come tornarci dopo un lungo tempo. Adesso sarebbe già diverso, proprio perché negli ultimi anni siamo costantemente in contatto con i ragazzi: è un tipo di relazione molto differente.
La situazione invece non è cambiata molto. Ci sono stati dei cambiamenti che sottilmente raccontiamo in Sarura: la lotta ha portato delle migliorie nella vita del villaggio, ma allo stesso tempo quello che balza all’occhio è che i processi di normalizzazione galoppano.
Per esempio la colonia di Ben Gurion 10 anni fa era presidiata dai militari, invece oggi incontri delle hostess e degli steward, magari sempre ragazzi israeliani che fanno i 3 anni di leva militare, ma che non sono inquadrati come soldati, piuttosto come addetti alla sicurezza. Così anche nel villaggio: è molto bello che ci sia la corrente elettrica, ma poi ti domandi se le migliorie sulla vita delle persone non siano anch’esse un modo per normalizzare la situazione.
La cosa che stupisce è che in questi anni, la storia ha continuato a funzionare sempre nello stesso modo: attacchi, provocazioni, arresti, violenze… Questo ti fa riflettere su come hai passato la tua vita in questo tempo e mentre loro per 10 anni costantemente nello stesso sistema. Fa strano, perché di solito uno realizza un documentario, racconta una situazione e poi nel luogo non ci torna più. Sarura, in questo senso, vuole riportare l’attenzione lì, rimettere in discussione alcune tematiche.

Quale era il vostro obiettivo prima di partire? Come vi siete preparati in fase di scrittura?
Eravamo partiti con l’idea di raccogliere le testimonianze ad At-Tuwani e poi altro materiale in parti diverse della Palestina. Invece, tornando ad At-Tuwani ci siamo focalizzati sulla storia della grotta di Sarura. Il mio obiettivo era permettere allo spettatore di calarsi in quella situazione; quindi un registro osservativo che fosse abbastanza morbido da adattarsi a ciò che sarebbe effettivamente accaduto e mettersi a disposizione di ciò che succedeva.
C’era in me l’esigenza di portare a casa più materiale possibile, anche per il poco tempo che avevamo a disposizione, e infatti abbiamo realizzato un sacco di interviste. Ho tentato di ascoltare la storia nella sua complessità, per cui a un certo punto è nata la necessità di fare riferimento a Tomorrow’s Land.
Anche se ai tempi di Tomorrow’s Land i protagonisti erano davvero piccoli, erano dei bambini: infatti, nella scena finale si vede Ali guardare sullo smartphone il documentario: loro non se lo ricordavano, non l’avevano mai visto.

Mi ha molto colpito la regia delicata e osservazionale. È stato un processo deciso in scrittura oppure nato in fase di riprese?
Non scrivo molto ed è un aspetto su cui sto lavorando adesso. Penso sia dovuto al fatto che spesso mi capita di curare la fotografia, quindi ho un approccio osservativo alle storie. Non ho una regia forte, anzi, è molto più facile che io da dietro la camera dia degli input, ma poi mi metta ad osservare ciò che succede. Quindi cerco sempre di portare a casa il più possibile per avere poi più strade tra cui scegliere in fase di montaggio.
Ad esempio, è stato molto importante stare settimane e settimane con un traduttore a riguardare tutti gli archivi che avevo a disposizione, traducendo decine di ore di girato, anche se nel film ne sono rimasti 5 minuti. Però credo sia interessante, perché per me l’obiettivo era portare una persona dentro quella grotta, magari in una scena di 2 minuti, in cui c’è questo vuoto, questo silenzio…
Questo vuoto e questo silenzio li posso capire solo se capisco la quantità di fatti che sono successi lì attorno. Perciò la sfida è stata: come costruisco spazialmente e cronologicamente questa storia, evitando il più possibile che diventi un’infinita didascalia di cronache?

La visione di Sarura mi ha dato, oltre all’indignazione, un senso di speranza per le persone che continuano a non arrendersi allo status quo della situazione israelo-palestinese.
Sì, se non ci fosse questa tenacia, appunto il Sumud, la “perseveranza”, davvero sarebbero spazzati via. Per quanto resti una speranza amara.
Non c’è una vittoria finale, non te la puoi inventare, perché la situazione continua ad andare in un circolo vizioso. L’unica speranza che ci vedo è la lotta che unisce i popoli. Perché se fosse solo la lotta dei palestinesi, non ce la potrebbero mai fare.


La storia dei ragazzi di Youth of Sumud ha implicazioni molto profonde sul ruolo dei mediattivisti e documentaristi occidentali, sulla possibilitá di modificare la realtá che ci circonda.
Se i ragazzi stanno nelle loro terre e filmano quello che succede è perché lo hanno visto fare agli stranieri. E poi sono cresciuti filmando le cose che succedevano intorno a loro. Non in maniera velleitaria, ma in maniera tattica: filmo quello che succede perché succede e perché penso sia importante denunciare ciò che sta accadendo.
Infatti non è nemmeno del vero e proprio giornalismo; sono video che con Armando (Duccio Ventriglia, il montatore di Sarura, ndr) chiamavamo “l’archivio giudiziario”, perché sono veramente delle perizie, più che delle cronache.
E sicuramente la presenza delle telecamere ha influenzato molti aspetti: innanzitutto impedisce alcuni sviluppi di certe situazioni e, poi, se ci sono le telecamere l’atteggiamento dei soldati cambia.


Avete in progetto di tornare lì per proseguire il racconto di queste comunità?
Credo di sì, non escludo di fare una trilogia sul villaggio di At-Tuwani. Mi piacerebbe fare un lavoro diverso con questi ragazzi che sono stati bambini, poi adolescenti e poi diventeranno adulti… Sarebbe interessante fare un lavoro più introspettivo, una volta che loro saranno cresciuti e poi, gioco forza, saremo cresciuti anche noi.
La cosa strana è di essersi legati, anche per effetto della propria vita, alla storia di un villaggio che senza la lotta politica e senza il documentario, non avremmo mai conosciuto.
Come Smk Videofactory avete un approccio “dal basso” nella produzione e distribuzione audiovisiva. Essendo tra i fondatori, vuoi parlarci della vostra realtá?
Noi siamo nati, appunto, con il primo film Tomorrow’s Land in forma di collettivo e poi via via ci siamo strutturati prima come associazione e poi come casa di produzione. Abbiamo sempre usato in questi anni lo strumento del crowdfunding per sostenere i nostri lavori, restando molto indipendenti e cercando di raccontare ciò che ci interessava raccontare.
Usando lo strumento del crowdfunding non solo come strumento di raccolta fondi, ma anche come strumento di conoscenza del pubblico.
Andando in giro a fare le proiezioni, vendevamo i nostri DVD e ci siamo resi conto che questa possibilità poteva essere estesa anche ai lavori di altri autori.
Da lì abbiamo creato un catalogo online, un nostro contenitore per il download digitale delle opere, implementato in una piattaforma di streaming, che si chiama OpenDDB (distribuzioni dal basso).

E cosa ci puoi dire di OpenDDB?
OpenDDB è una forma di catalogo aperto, ispirato all’idea dell’open source.
Noi abbiamo sempre distribuito le nostre opere sotto licenza Creative Commons (CC), perché abbiamo questa visione di bene comune, di storia comune.
Inoltre, OpenDDB negli ultimi anni ha avuto una forte accelerata, perché la fruizione dei film in digitale durante la pandemia ha avuto una forte crescita.
Perciò l’aspetto comunitario dell’andare in sala e guardare i film insieme si sta perdendo e questo è un problema.
Un conto è avere un sistema online che permette alle persone di vedere le storie che non si riescono a trovare al cinema. Altro conto è che questo sistema si sostituisca alla fruizione collettiva delle storie. Il cinema ha una valenza politica; proprio antropologicamente una funzione comunitaria, legata alla vita dei quartieri e delle città. Se questa cosa si perde, rischiamo davvero l’alienazione.
In questo senso di cinema di comunità, avete in mente di proiettare Sarura anche in Palestina, a coronamento di questo progetto?
Recentemente i ragazzi di Youth of Sumud hanno proiettato Sarura a Sarura. Questa è stata la première palestinese del nostro film, ma ci stanno già chiedendo di organizzare altre proiezioni in Palestina. Quindi andiamo avanti.
In copertina: Mario Fantin alla cinepresa.
About Author / Paolo Maoret
Autore e documentarista bellunese. Dal 2007 vive e lavora a Bologna, dove si è laureato in DAMS e CiTeM. Nel 2016 ha fondato Selvatica VideoLab, collettivo che produce documentari, corti e videoclip. È allievo della scuola di scrittura Bottega Finzioni.