La circostanza che mi portò a conoscere Paolo Rumiz fu del tutto casuale, comunque imprevista.

Era il 2010, stavo girando il film Case abbandonate. Ovunque andassi mi suggerivano di contattare Paolo Rumiz. A Paraloup, tra le valli piemontesi teatro della lotta partigiana, Marco Revelli ed Antonella Tarpino mi parlarono di lui. In Calabria, l’antropologo Vito Teti, mentre mi raccontava di paesi interni abbandonati e dei loro doppi lungo le coste, mi disse di averlo ospitato alcuni mesi prima, e così mi raccontò anche il sindaco di Soriano. Tutti mi consigliavano di inserirlo nel mio documentario. Così provai a scrivergli una mail. E lui, prontamente, mi rispose.

“So poco sul tema, invece vorrei saperne da te. Per scriverne. Il tema è magnifico, mandami dati”. In sostanza, rifiutò l’intervista, ma mi lasciò capire di essere interessato all’argomento, e anche a quello che stavo realizzando.

Luca Turchetto e Franz Pozzi Brunner, rievocatori storici, camminano nella neve durante le riprese di "L'albero tra le trincee"

Qualche tempo dopo, quando il film era ormai ultimato, venni a sapere che Paolo Rumiz era a Reggio Emilia per presentare il suo ultimo libro, La cotogna di Istanbul. Così andai, feci la fila per gli autografi e gli consegnai una copia del dvd completo. Il giorno dopo, lui mi cercò e mi chiese di raggiungerlo a Bologna. Così andai, e pochi giorni dopo, su La Repubblica, uscì un grande articolo, riguardante il mio film e i luoghi abbandonati. Chiamai Paolo per ringraziarlo, ma lui mi disse: “Guarda che adesso quel viaggio lo rifaccio io”. A quel punto gli risposi: “Allora mi porti con te”. Mi venne spontaneo dirlo. Certo non era così facile.

Paolo Rumiz era abituato, da anni, a organizzare viaggi da raccontare, a puntate, sul  quotidiano con cui collaborava. Ma quei viaggi, nessuno prima li aveva mai filmati. C’era dunque timore, sia da parte mia che da parte sua. In effetti, c’era il rischio che la macchina da presa contaminasse eccessivamente il processo di scrittura, che ha ritmi diversi, a cui Paolo era giustamente e profondamente legato.

Così da subito dovetti confrontarmi con la diversità dei linguaggi. Paolo è abituato, nei suoi viaggi, a prendere appunti su piccoli taccuini, brevissime frasi, parole chiave che poi, una volta riorganizzate al suo tavolo di lavoro, diventano versi, racconto, storie. I suoi appunti, in mano a qualcun altro, non potrebbero “suonare”. Lui invece è in grado di riprodurre una sinfonia, fatta di quanto ha vissuto, ma al tempo stesso trasfigurato, attraverso espedienti narrativi che consentono di restituire al lettore la magia delle esperienze vissute, o anche solo immaginate.

Il cinema del reale, invece, deve attenersi a quanto raccolto dalla macchina da presa. O meglio, è evidente che, come tanti hanno più volte osservato, un’inquadratura comporta una scelta, tra ciò che ne resta fuori e ciò che viene filmato. Per non parlare del montaggio, che chiaramente trasforma la realtà e con ellissi e sottintesi restituisce giornate intere talvolta nello spazio di pochi minuti. Però ad esempio, se piove, la pioggia non si può togliere. Se quando hai filmato era notte, notte rimane. Il luogo in cui avviene un incontro, i colori, le facce, le espressioni, tutto si consolida dentro alle immagini raccolte. Per cui ciò che maggiormente temeva Rumiz era che le riprese potessero svelare il meccanismo dietro alla scrittura, che la rendessero meno interessante a causa della presenza di un’immagine che tutto svela.

Quello che ci accomunava da subito, e presto lo scoprimmo, era il desiderio di evocare, più che rappresentare oggettivamente il reale. Per quanto possibile, io ho sempre cercato, con la mia macchina da presa, di non invadere gli spazi, di accarezzarli, di farmi invisibile, per raccogliere l’autenticità degli incontri. Sparire, oppure più precisamente, essere parte del racconto, per non contaminare l’autenticità con il mezzo tecnologico.

Immagine tratta da "L'albero tra le trincee"

Ricordo molto bene quando ci incontrammo Paolo ed io, all’aeroporto di Roma, per partire alla volta della Sardegna, dove sarebbe cominciato il nostro primo viaggio assieme. Lui mi attendeva seduto, i piedi stesi sulla valigia usata come mobiletto. Mi scrutava dal basso verso l’alto, e sentivo in lui il timore che io potessi rovinare tutto. Non parlammo per tutto il tempo del volo.

Appena scesi dall’aereo, cominciarono le mie riprese. Mi sono sempre chiesto come sarebbe stato per Paolo se oltre a me ci fosse stato un fonico, un direttore della fotografia, se insomma avessi portato con me una troupe cinematografica. Non penso che avrebbe mai potuto accettarlo. Essere da soli era essenziale anche per me, per rispettare il desiderio di raccogliere le storie senza artifici.

Il primo viaggio fu battezzato filmicamente Le Dimore del Vento. Dopo i primi giorni, quasi subito in realtà, si generò una grande armonia: Paolo si soffermava a prendere appunti sul suo taccuino, e io facevo lo stesso con la mia macchina da presa.

Chioggia. Immagine tratta da "Il Risveglio del fiume segreto"
Immagine tratta da "L'albero tra le trincee"

Non fu immediato per me, una volta tornato a casa, trovare la chiave per raccontare il viaggio in forma filmica. D’altronde, avevo da poco realizzato un documentario sullo stesso tema, e varie tappe del mio viaggio precedente erano state incluse nel racconto di Rumiz. Si trattava di una sorta di remake, di rivisitazione in forma diversa delle medesime storie.

Ma la dimensione di pubblico era differente. In questo caso la diffusione sarebbe stata in DVD tramite il giornale, mentre Case abbandonate, sebbene avesse riscontrato successo, era stato proiettato solo in alcune sale cinematografiche in giro per la penisola.

Comunque sia, riuscii a trovare una chiave per il nuovo racconto. Di lì a poco mi sarei accorto, grazie agli insegnamenti di Paolo, che se ci si lascia trasportare dal viaggio, è come se le storie ti venissero incontro spontaneamente, andando a comporre una sceneggiatura immaginaria, perfettamente coerente per quanto non scritta a priori. E il bello è che succede sempre. Ogni volta che sono partito in viaggio, soprattutto con Rumiz, sono stato colto dalle medesime preoccupazioni. In fondo si tratta di partire, seguendo un percorso che all’inizio è un’incognita. E se non succede nulla? Se non incontriamo nessuno? E invece accade. Magicamente, le storie si compongono.

Paolo Rumiz durante le riprese di "Le dimore del vento"

Così avvenne anche in quel primo viaggio: sul Monte Partenio in Irpinia, mentre stavamo filmando una base militare dismessa e la collina sormontata da antenne e ricevitori satellitari, d’un tratto cambiò il tempo e una nuvola avvolse ogni cosa, facendola lentamente scomparire. In Lombardia invece ci trovavamo con un’anziana custode, ultima curatrice di una cascina ormai abbandonata. D’improvviso cominciò a piovere, allora le offrimmo un passaggio in macchina, ma lei ci rispose che sarebbe andata in bicicletta. Ci trovammo a seguire, e a raccogliere le immagini di lei che si allontanava, lieve, sulla sua bicicletta, protetta da un piccolo ombrello, nell’incessante pioggia primaverile. Tante le sorprese, tutte storie impreviste, eppure incredibilmente “già scritte”.

Quando questa prima impresa fu terminata, immaginavo che potesse trattarsi di un unicum. E invece fu Paolo a contattarmi di nuovo, pochi mesi dopo, per dirmi che stava organizzando il suo nuovo viaggio annuale. Così lo raggiunsi.

Il secondo racconto fu il Grande Fiume, attraversato in barca. Anche in questo caso, l’impresa era complessa per me. Avevo già raccontato il Po in un mio documentario, Le vie dell’acqua. Ancora una volta, oltre a coordinare il mio lavoro con quello della scrittura, avevo davanti la sfida di raccontare da una diversa angolazione storie già narrate in precedenza.

Ancora una volta, fu Paolo a venirmi in aiuto.

L'equipaggio in navigazione sul Po, durante le riprese di "Il risveglio del fiume segreto"

Infatti io, forte della mia esperienza, cercavo di suggerire incontri, di provocare citazioni. In fondo, il Po è stato narrato in modo superbo da Zavattini, Soldati, Guareschi, Pederiali, Ghirri… si confondevano nella mia testa i tanti Maestri che ci avevano preceduto, e che dovevano in qualche modo essere rappresentati in questo viaggio. Paolo non mi ascoltava, e continuava a fissare il fiume.

Mi sentii in difficoltà, non riuscivo a comprendere il suo comportamento. Pensai alle differenze tra scrittura e cinema, al fatto che alle storie non raccolte lui in qualche modo avrebbe potuto rimediare, e io invece no. Quello che non filmavo, non sarebbe stato possibile inserirlo. Ma poi capii.

Il racconto vero era il Fiume. Non era così importante riprendere i discorsi fatti da altri, era invece essenziale rendere protagonista il fiume, capace di rigenerarsi, di sprigionare bellezza nonostante tutto ciò che l’uomo ha provocato negli ultimi 50 anni, tra inquinamento, escavazioni e oblio. Così finalmente, mi liberai del fardello di raccontare il lamento, e mi lasciai trasportare dalla corrente, per esprimere la bellezza.

Un’altra cosa che Paolo mi ha trasmesso è la leggerezza, il piacere di raccontare gozzoviglie, simposi, bicchieri di vino, momenti di gioia raccolti lungo il percorso. Finito il Po, era ormai chiaro che ci sarebbe stato un terzo viaggio assieme. Fu il momento della Grande Guerra. Paolo pensò di affrontare il tema con un anno di anticipo rispetto ai 100 anni dall’inizio del conflitto. In questo caso, le mie preoccupazioni nascevano da motivazioni opposte rispetto a quelle precedenti. Si trattava infatti di un argomento che mai avrei trattato, se non fosse stato per Paolo.

Il cast de "Il risveglio del fiume segreto" - Foto di Maki Galimberti

Fu un’esperienza folgorante. Compresi fin da subito la condizione straordinaria in cui si trovava Paolo: triestino, figlio di due mondi diversi. Infatti, quando la Prima Guerra Mondiale ebbe inizio, Trieste faceva parte dell’impero austroungarico. Per cui i soldati triestini, nel 1914, partirono in guerra sotto un’altra bandiera, e verso il fronte orientale, quando peraltro l’Italia non era nemmeno ancora entrata in guerra.

Questo porsi fin da subito lungo la linea di confine, guardando ai due fronti senza pregiudizio, mi ha spinto a riflettere profondamente sul senso delle guerre, e a pensare che se guardiamo a quella guerra con gli occhi di oggi (anche se gli storici non approverebbero), possiamo pensare a quel conflitto come a una guerra fratricida, una guerra civile in cui giovani dello stesso Paese, con gli stessi sogni e le stesse ambizioni, si suicidarono in una snervante e interminabile guerra di posizione.

Il film sulla Grande Guerra ne generò altri 11, dopo il grande successo del singolo. Si trattava per la prima volta di una sorta di inversione di ruoli. Nei primi lavori fatti assieme ì, in fondo, il documentario raccoglieva storie pensate originariamente per la scrittura seriale. In questo caso invece, Rumiz diventava attore e consulente per un progetto filmico.

Fu pazzesco, ci trovammo a viaggiare per tutta Europa nel giro di pochissimi mesi. Fu anche una grandiosa messa alla prova per me, montare contemporaneamente una serie intera e consegnarla nell’arco di pochissimo tempo.

L’anno successivo, attraversammo a piedi l’Appia Antica. Ma questa è un’altra storia.

In copertina: Paolo Rumiz durante le riprese di “Le dimore del vento”