Rifugi poetici
Situati nella città metropolitana di Bologna, a San Marino di Bentivoglio e a Pianoro, i due interventi site specific Rifugi Poetici si rifanno ad un progetto iconico che astrae la propria forma organica dalla natura e dai comportamenti animali, recuperando per la costruzione le potature degli alberi/delle piante del sito.
Per sviluppare un linguaggio poetico che sperimenta le forme del paesaggio all’interno di una riflessione sulle forme dell’architettura, i due rifugi sono immersi nel contesto naturale ed urbano di due musei: il Museo della Civiltà Contadina e il Museo di Arti e Mestieri Pietro Lazzarini.
Il progetto artistico, inserito nella manifestazione più generale Gli antichi saperi di domani (ideata dal Museo della Civiltà Contadina), entrando in assonanza con gli elementi distintivi dei due luoghi, ha cercato di individuare un elemento caratterizzante per ognuno in modo che l’eredità culturale legata a quei territori potesse valorizzare il museo come spazio di estensione della memoria, in modo da far emergere una riflessione sull’arte contemporanea a partire dal luogo e da ciò che lo rende qualcosa di irriducibile.

Sin da subito ho pensato al land artist argentino Oscar Dominguez (che vive in provincia di Ravenna) come al compagno ideale in questo viaggio rivolto a giovani artisti del mio corso di Decorazione per l’architettura all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Attraverso un workshop da lui condotto abbiamo inteso raccogliere dai siti individuati alcune eredità per integrare l’agire artistico nell’ambiente sociale, rapportandoci al paesaggio e alle possibilità di trasformazione a partire dal suo patrimonio, per privilegiare il rapporto con le storie legate al luogo. Per questi aspetti, a Pianoro abbiamo scelto le potature della vite come materiale da costruzione, un omaggio alla centenaria vite del Fantini ritrovata nel territorio, e a Bentivoglio abbiamo utilizzato altre potature, sempre recuperate in prossimità del museo.
Era la fine del mese di novembre e l’inizio di dicembre, non era il momento ideale per iniziare un progetto all’aperto. Significava costruire al freddo e alle volte sotto la pioggia. E così è stato per il primo rifugio nel parco del Museo della Civiltà Contadina, che ci ha accolto in un percorso formativo fuori dalle aule didattiche, destinato agli studenti del Biennio specialistico. A febbraio, quando è iniziata la costruzione del secondo rifugio nel giardino del Museo di Arti e Mestieri Pietro Lazzarini, dal punto di vista atmosferico le cose sono andate meglio.
Oggi i due Rifugi poetici, riconfigurando il paesaggio e le abitudini degli abitanti, connettono Bentivoglio a Pianoro, restituendo quella continuità geografica ed emotiva di cui abbiamo davvero bisogno in questo momento.
Essere in questi luoghi per alcuni giorni ci ha fatto comprendere come in queste zone fosse grande il potenziale di trasformazione con cui confrontarci e come le pratiche del patrimonio culturale immateriale, fondamentali per la vita materiale , «… danno continuità al vivere comunitario, sintetizzano le memorie sociali e le proiezioni di una comunità verso il futuro (…) e l’azione culturale promuove la conservazione di certi ricordi e fa sì che altri vengano del tutto cancellati…» (Christoph Wulf, Patrimonio immateriale e educazione culturale).

Una chiacchierata fra Vanna Romualdi e Oscar Dominguez
Quale dialogo instauri con il paesaggio quando intervieni?
Nel tempo le esperienze cambiano la nostra percezione del mondo. L’atteggiamento ed il modo di agire che abbiamo nei confronti di certi stimoli, che si modificano davanti ai nostri occhi, ci trasformano. Andando avanti nella mia formazione ho scoperto quanto io fossi permeabile nella mia prassi artistica e all’interno di questa consapevolezza ho iniziato a chiedermi tante cose. Dopo varie riflessioni ho capito come il mettermi in ascolto fosse per me una condizione fondamentale, nel senso che prima di esprimermi in un contesto connotato, come ad esempio intervenire nel paesaggio o agire all’interno di uno spazio architettonico, è per me necessario sentire/capire il luogo. Se non si crea una tensione all’ascolto, se non si attiva questo dialogo, per me, non c’è possibilità creativa. I monologhi, autoreferenziali, non sono parte della mia ricerca. Nel mio operare, gli interventi vorrebbero corrispondere ad uno spazio, creare assonanze. Cerco di farlo in modo aperto ed attento, rispettoso del luogo, per non essere invasivo. L’armonia può essere una condizione di arrivo.


Come si relaziona il tuo lavoro all’arte pubblica?
Nel mio percorso ho fatto lavori di medie e grandi dimensioni, ognuno con una propria logistica, una diversa quantità di materiale legato al tempo necessario per la costruzione. La partecipazione di più persone e mezzi si rende quindi indispensabile in molti casi ed è quell’esperienza condivisa e necessaria che dà origine ogni volta ad una nuova opera.
In genere le installazioni sono realizzate in campagna, quindi solo un pubblico dotato di una certa mobilità può entrare in questi contesti ed essere parte attiva. Raramente gli interventi si trovano in luoghi con un passaggio frequente di persone. L’altra caratteristica importante nel mio lavoro è che le opere possano consentire una forte interazione con il pubblico, soprattutto quando si tratta di forme architettoniche non isolate e di grandi dimensioni. Ma questa permeabilità dell’opera deve sempre confrontarsi con la presenza effimera di ogni intervento, data la natura organica dei materiali utilizzati.


Come ti sei rapportato alle studentesse, agli studenti in un lavoro in cui sei stato coordinatore e tutti insieme siete stati costruttori?
Allo stesso modo in cui ogni giorno mi rapporto con la prassi del mio lavoro: mettendomi in ascolto e sperimentando un dialogo attento e fluido, ogni volta diverso. Questi sono elementi chiave per lavorare insieme, perché le esperienze di creazione condivisa si aprono a meccanismi particolari. Ogni grande opera è il risultato di tanti piccoli gesti e movimenti ripetitivi. In questo clima di lavoro ogni partecipante diviene “anonimo” per essere poi “protagonista” insieme agli altri nel risultato finale. Un atto generoso ed umile, un momento di condivisione fra pari capace di generare una grande intesa. L’esperienza di un workshop per la creazione di un’opera è un’incognita che incontra quasi sempre una buona risposta se si attivano queste relazioni.
Il fatto di lavorare con ragazze e ragazzi che hanno scelto l’arte come modalità per “incontrare il mondo” dona alla collaborazione una ricchezza infinita, data anche da quella freschezza d’animo che ancora risente della vicinanza all’infanzia che rende i giovani ben disposti al gioco, e dalla possibilità di poter avere naturalmente una grandissima energia. I grandi lavori, come accennavo prima, richiedendo tempo e tanti gesti ripetuti creano un ambiente adatto alla condivisione. In genere sono momenti silenziosi, pacifici e di grande attenzione verso gli altri. Nel caso specifico dei workshop al Museo della Civiltà Contadina di San Marino di Bentivoglio e al Museo di Arti e Mestieri Pietro Lazzarini a Pianoro, i giovani partecipanti provenivano da paesi diversi (Italia, Cina, Polonia, Iran). Questo ha messo in atto una dinamica ancora più interessante perché si è potuto vedere la propria cultura di provenienza riflessa nel modo di lavorare di ciascuno. Per queste notevoli differenze, emerse sin da subito, abbiamo deciso di fare un lavoro a rotazione, nel senso che ognuno si spostava intervenendo in più settori della struttura in modo da creare una maggiore omogeneità e armonia per dare una continuità visiva al lavoro nel suo insieme. Questo ha consentito di intrecciare le persone, le modalità, il lavoro. Devo dire che conosco relativamente bene la cucina italiana, anche se la varietà di pietanze è gigantesca. Adesso proverò a scoprire quella cinese, quella polacca e quella iraniana. Sono molto curioso.
Un altro aspetto che emerge in maniera importante è il contatto diretto con la natura, non solo intesa come luogo d’azione ma anche di rapporto con i fenomeni che la determinano: pioggia, freddo, vento, sole. Nei giorni del workshop abbiamo avuto una serie di condizioni atmosferiche diversissime tra loro, da noi vissute come condizioni date della natura, e di cui si deve tener conto.


Come si relazionano questi rifugi ai tuoi precedenti interventi in natura?
In entrambi i casi, a Bentivoglio e a Pianoro, abbiamo utilizzato elementi di recupero per la realizzazione delle opere, una modalità che appartiene da tempo alla mia prassi artistica. Nel primo abbiamo sfruttato potature recuperate in zona, scegliendo quelle più adatte al nostro progetto. Anche su questo aspetto la varietà e la diversità di specie arboree ha arricchito il lavoro dandoci la possibilità di utilizzare i tronchi più robusti per la struttura, quelli medi per determinare la forma e quelli sottili e flessibili per le finiture e la definizione dei particolari. A Pianoro abbiamo deciso di utilizzare un materiale, sempre di recupero, molto presente in zona: la potatura delle vite. Questi rami sono abbastanza omogenei e, pur essendo un’ottima risorsa per determinare le forme, i tralci di vite non hanno però dimensione e resistenza tali da consentire di creare una struttura stabile, in funzione anche ai tempi disponibili che abbiamo avuto per il workshop. In questo caso abbiamo predisposto una piccolissima struttura in ferro prima di iniziare la costruzione in modo da avere “un segno da inseguire”.
In entrambi i rifugi si è utilizzata la tecnica dell’intreccio per ottenere una certa resistenza costruttiva. La scelta invece di lavorare su “strutture contenitore” è sostenuta dal fatto che volevamo un’interazione del pubblico con l’opera. L’intenzione era quella di portare i visitatori dentro a un “nido”, un contenitore comunque aperto, che potesse permettere un’esperienza percettiva particolare. Siamo legati in genere ad architetture rigide e planari, lontane dall’organicità della natura, quindi questa esperienza contribuisce, a mio parere, ad un avvicinamento al mondo vegetale e animale, che è parte della natura. Natura siamo anche noi, e tante volte lo dimentichiamo credendo di essere invece solo semplici spettatori.

“Rifugi poetici” mostra possibili percorsi che si aprono ad un circuito fra la pianura e la collina. Pensi sia possibile strutturarlo?
Certamente, e torno sempre allo stesso punto: l’ascolto di ogni luogo permette un’interazione concreta e profonda.
In merito al circuito e all’ipotesi di Rifugi poetici fra la pianura e la collina, si può avere una continuità in quanto a materiali e modalità costruttive, e lasciare aperto il dialogo con il luogo darà un risultato sempre diverso e coerente in tutto il percorso. Sono davvero contento che ci siano istituzioni con rappresentanti, professori, operatori, che abbiano come obiettivo la creazione di spazi di ricerca dove svolgere queste attività con gli studenti, fuori dalle aule accademiche.
Viviamo in un momento storico in cui le offerte formative sembrano infinite, ma non sempre queste esperienze sanno tener conto dell’aspetto umano. L’impegno delle persone, che resta l’elemento responsabile dell’esito finale, risulta determinante per una riuscita positiva, oltre l’attuazione delle forme.
In copertina: Rifugi poetici 2022 Pianoro. Foto: Andrea Mandalari
About Author / Vanna Romualdi
Insegna Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna. È ideatrice del progetto Patrimonio. Risorse per lo spazio pubblico, strumenti per la progettazione artistica contemporanea,