“Fertile”: l’ortofrutta al femminile
L’Associazione Nazionale Le Donne dell’Ortofrutta è una realtà nata in Emilia-Romagna, per poi estendersi a livello nazionale, che promuove una visione al femminile del prodotto ortofrutticolo e si batte per dare voce alle tante donne presenti nel settore. Alessandra Ravaioli, presidentessa dell’Associazione, a partire dalla recente realizzazione del documentario FERTILE, ci racconta della valorizzazione del territorio e dell’apporto innovativo che le donne possono offrire in questo importante ambito lavorativo.

Parto subito col chiederti del documentario “Fertile”: come mai un’associazione come la vostra ha scelto questo mezzo per raccontarsi?
Innanzitutto la nostra è una associazione no-profit che unisce imprenditrici e altre professioniste del settore ortofrutta. Siamo un gruppo che rappresenta attività dell’intera filiera ortofrutta.
Uno dei nostri principali obiettivi è quello di comunicare l’ortofrutta con una visione al femminile. Siamo tutte dell’idea che non venga valorizzato a sufficienza il valore intrinseco dei prodotti e anche dell’intera filiera. Per cui l’idea di realizzare questo documentario rientra in un progetto di comunicazione a 360 gradi: nasce con il crowdfunding (che ha avuto un enorme successo, e di cui siamo orgogliosissime: attraverso la piattaforma Ginger siamo riuscite a raccogliere 37.400 euro… una cifra che non ci saremmo mai aspettate!), che ci ha permesso di raccogliere dei fondi comunicando il nostro sogno di rendere protagoniste le donne, che normalmente sono sempre poco rappresentate.
Questo primo traguardo ci ha portato ad avere sempre più energia e voglia di andare a fondo sulle nostre tematiche e di sperimentare nuove tecniche di comunicazione. Con il documentario abbiamo avuto modo di esprimere analiticamente la nostra realtà, avendo dei tempi più ampi e la possibilità di fare un viaggio lungo tutto il territorio nazionale… insomma, ci sembrava il modo migliore per poter raccontare il lavoro di queste donne e ciò che c’è dietro le quinte del settore ortofrutticolo in cui effettivamente il 70% dei lavoratori (e degli operatori in generale) è rappresentato da donne. Quindi c’è molta presenza femminile, ma sempre nascosta e con poca voce in capitolo dal punto di vista decisionale. Infatti ci sono solo il 2-3% di donne che hanno un ruolo di vertice: questa è la nostra battaglia.

Diciamo che nel documentario avete messo in luce la presenza e l’importanza del lavoro femminile all’interno di questa realtà…
Sì, l’importanza del lavoro femminile e la nostra visione del prodotto. Il documentario si articola in una serie di testimonianze, ci sono una decina di protagoniste che lavorano in diversi territori nazionali e che raccontano la loro vita, la loro storia e il loro prodotto con una passione, con un’intensità inusuale, molto poetica, molto vicina alla natura, con grande attenzione alla sostenibilità e agli aspetti umani del nostro lavoro.
Si può dire quindi che un aspetto fondamentale per voi sia lo storytelling, quindi trovare anche dei modi alternativi per diffondere questa idea…
Considerando il fatto che noi siamo per ora uniche, perché non non esiste, infatti, un’altra associazione come la nostra in Europa, abbiamo voluto sperimentare anche questa esperienza di comunicazione e di storytelling, che è particolarmente innovativo per il nostro settore.

Com’è stato per voi rapportarvi con il mezzo documentario? Avete avuto difficoltà o è stato facile raccontarsi?
È stato molto facile e anche molto bello. L’unica cosa è che siamo centotrenta e obbligatoriamente si son dovute scegliere alcune storie, ma attraverso queste siamo riuscite a dare voce a tutte. Il filo conduttore del documentario è il territorio e il legame del prodotto con il territorio: si passa dal Piemonte con i suoi mirtilli, che sta diventando territorio principe per la produzione di piccoli frutti, fino alla produzione del melone nella zona del Po mantovano e in Pianura Padana, all’uva di Rutigliano, le arance rosse di Sicilia, il radicchio rosso di Treviso e tante altre unicità. Diciamo che siamo state guidate più che altro dalla terra.
Quindi è anche un progetto di valorizzazione del territorio secondo una visione al femminile…
Abbiamo discusso tanto su questo discorso della visione al femminile. Per noi è un atteggiamento più empatico nei confronti del prodotto. Nel documentario, ad esempio, senti delle persone, delle socie, che parlano con una passione, con una vicinanza a questo prodotto, a quello che si deve fare per ottenerlo, che è molto emotiva, empatica e diversa dall’approccio marketing-oriented, in cui si può parlare di un brand con passione, ma non viene mai fuori questa emotività, che secondo me avvicina molto il produttore al consumatore.
Sono convinta che parlando in questo modo, chi consuma senta più vicino quel prodotto, lo consideri meno asettico: per me questo è il senso della visione al femminile.

Quali sono le difficoltà che le donne riscontrano in questo settore? E quali strumenti cerca di fornire l’Associazione per superare queste difficoltà?
Le difficoltà sono sempre quelle di non avere voce, quindi laddove si decidono le cose, si discute dei temi dell’ortofrutta – e non dimentichiamoci che l’Italia è il primo produttore mondiale di ortofrutta, insieme alla Spagna, quindi è un settore importantissimo per l’economia italiana – come le strategie future e le problematiche da risolvere; ma le donne non ci sono, non sono ascoltate e sono pochissime quelle che hanno voce in capitolo. Quindi noi attraverso le nostre attività – che sono attività di comunicazione, facciamo anche un premio dedicato all’innovazione al femminile – cerchiamo di farci sentire con i nostri temi e di avere maggiore presenza nel processo decisionale, in modo che l’imprenditoria al femminile venga valorizzata come merita.
Poi rimane sempre l’obiettivo di valorizzare l’ortofrutta, un tema che riguarda tutti, anche perché i consumi di ortofrutta, soprattutto nei momenti di crisi come questo, rischiano di essere messi da parte. Uno dice “non arrivo a fine mese, devo evitare di spendere in qualcosa”, ma bisogna stare molto attenti al non comprare, ad esempio, la frutta, che è invece fondamentale per il nostro benessere, per la salute, per la forma fisica. Quindi anche il tema del consumo è molto importante per noi.

Immagino anche che promuoviate un certo tipo di consumo consapevole, ho notato che ponete molto l’accento sui temi della sostenibilità, del consumo idrico…
Moltissimo! Tutto il mondo agricolo non può che essere attento a questo tema perché è la sua vita. Il cambiamento climatico rappresenta un problema enorme, soprattutto per chi produce alimenti freschi. Il tema dell’acqua e della siccità è sempre in primo piano per noi.
Un’ultima domanda che ti vorrei porre: cosa ha significato per te, nella tua esperienza personale, essere una donna nel settore ortofrutticolo?
Io vengo da una famiglia di agronomi: nonno, bisnonno, padre, tutti erano sempre del settore agricolo. A me sarebbe piaciuto fare altro, avevo attitudini completamente diverse. Alla fine ho fatto quello che mi ha chiesto di fare mio padre. La sua idea nel cassetto era quella di sfruttare la nostra caratteristica creatività famigliare per fare impresa. Ecco, io sono riuscita a fare questo e ne sono contenta: mio padre non c’è più e sono felice di aver dedicato la mia vita e la mia attività alla promozione, comunicazione e valorizzazione dell’ortofrutta, e più in generale dell’agroalimentare italiano.
Mi sembra di capire che tu sia riuscita a farlo dando un’impronta molto personale…
Diciamo che ho messo la mia predisposizione umanistica nell’attività professionale… Anche questo documentario è un po’ la commistione di due ambiti, di due settori che combaciano e si valorizzano a vicenda. Un prodotto del genere arriva molto di più rispetto alle solite cose didascaliche oppure troppo tecniche. È molto difficile riuscire a varcare i confini del settore tecnico, anche dal punto di vista del linguaggio. Attraverso questo documentario – grazie anche al regista Alessandro Quadretti che ha molta esperienza e molta sensibilità – speriamo di essere riuscite a uscire da questo vincolo. Perché alla fine quando si parla tra di noi, si usa sempre un linguaggio tra il commerciale e il politichese.
Sono delle modalità di comunicazione che non possono raggiungere il consumatore, e si fa molta fatica ad andare oltre questo confine. E invece col documentario si può riuscire a trovare un linguaggio comune e più immediato.

Non avrei ulteriori domande. Tu vuoi aggiungere qualcosa?
Volevo solo dirti, approfittando del fatto che sei comunque un’antropologa, che ho scoperto che l’agricoltura come tecnica – partendo dalla coltivazione e dalla raccolta dei frutti della terra – è un’invenzione delle donne e questo aspetto non è stato mai valorizzato e mi piacerebbe si riuscisse a parlarne di più. Leggendo varie fonti ho verificato che esistono documenti e ricerche antropologiche che attestano questa importante realtà. Non capisco perché sia un dato così poco approfondito e al contempo così importante.
Forse il problema sta anche in una storia perlopiù raccontata da uomini…
Esatto, è un aspetto molto interessante su cui sarebbe opportuno riflettere…

Tutte le immagini dell’articolo sono tratte dal documentario Fertile, regia di Alessandro Quadretti, produzione Officinemedia.

About Author / Claudia Rosati
Laureata in Antropologia e appassionata di cinema documentario, lavora nella realizzazione di progetti audiovisivi.