Quel che resta, il documentario su cui sto lavorando, ha inizio nel marzo 2020: un momento impresso nella memoria di tutti gli italiani, e non solo.

L’emergenza Covid-19 travolge il Nord Italia. Parma, la città dove vivo, è tra le zone più colpite. Mentre il lockdown lascia le strade deserte, ogni giorno decine di persone muoiono da sole negli ospedali, lontane dalle proprie famiglie e dal conforto di un viso conosciuto.

Il caos dell’emergenza non consente nemmeno di restituire ai familiari gli effetti personali delle vittime. Le fedi nuziali, gli indumenti, le foto dei nipoti, i portafogli si accumulano nei reparti, stipati in sacchi di plastica.

Nessuno se ne occupa e nemmeno ha il tempo di pensarci. Nessuno eccetto Stefano, un giovane avvocato che in quegli oggetti riesce a vedere qualcosa di più: un modo per restare uniti.

Parlando con un amico, medico in prima linea nei reparti Covid dell’Ospedale Maggiore di Parma, Stefano capisce quanto è importante che quegli oggetti possano tornare alle famiglie che non hanno nemmeno potuto celebrare il funerale dei loro cari. E tornarci con tutta l’attenzione e la cura che un dolore del genere richiede.

Stefano è deciso a fare qualcosa e si mette in contatto con l’ospedale, proponendo di occuparsi della restituzione degli effetti personali che gli operatori sanitari non potevano gestire.

Un gruppo di cittadini che, volontariamente, entra in un ospedale in piena pandemia non è cosa da poco, ma le condizioni di lavoro in cui si trovano a operare medici e infermieri sono così disperate che la dirigenza accetta l’aiuto di Stefano.

In questo scenario, ho avuto la possibilità di filmare Stefano fin dall’inizio. Lui non perde tempo, organizza un piccolo gruppo di volontari per raccogliere gli oggetti dai reparti Covid, sanificarli, ordinarli in un padiglione dismesso dell’ospedale e infine restituirli alle famiglie con la dovuta cura.

Gli oggetti dei defunti sono dunque il filo rosso della narrazione di questo film. Rappresentano ciò che unisce le persone anche nella distanza obbligata.

L’iniziativa spontanea di Stefano si trasforma presto in un movimento. I volontari sono immersi in un oceano di frammenti, alle prese con un infinito numero di sacchi di plastica e poi con lunghe file di scaffali che accolgono gli oggetti delle vittime finalmente sistemati in modo dignitoso per la restituzione.

All’opera ci sono uomini e donne di ogni età, molti sono giovani studenti e ognuno fa la sua parte.

Stefano dà loro indicazioni e consigli mentre, con la mascherina sul volto, prepara quelle stanze spoglie per accogliere i sacchi colmi di effetti personali che arrivano dai reparti in quarantena a cui nessuno può accedere.

A trasportarli sono i volontari della Protezione Civile, avvolti da tute bianche che scoprono solo gli occhi. I sacchi di plastica passano numerosi dalle loro mani. Le parole sono poche, lavorano in silenzio. Quasi increduli, sanno che ogni busta è una persona in più che se n’è andata senza accanto un parente, senza un funerale. Quegli anonimi fardelli sono ciò che resta dei loro ultimi momenti di vita.

Altri volontari sistemano poi gli oggetti, dai più semplici come un pigiama, alle cose preziose come una fede nuziale o una foto di famiglia; c’è chi li sanifica e li riordina, chi mette a disposizione la sua arte, il cucito, la pittura per creare contenitori adatti. E non da ultimo, c’è chi fa da ponte per riportarli nelle mani dei familiari, attraversando le barriere create dal virus.

All’interno di una delle più gravi emergenze sanitarie della storia, la disperata inutilità pratica di questi gesti li rende invece i più necessari, un rituale di umanità che dà speranza.

Gli effetti personali, ritrovati e restituiti, accompagnano così le azioni dei volontari e dei familiari in ogni momento della narrazione. In un certo senso, finiscono per agire loro stessi generando intensi momenti di scambio fatti di rabbia e dolore, ma anche di sollievo e commemorazione, di racconto, che diventa memoria e omaggio.

Gli oggetti, anche i più banali, tra le mani di chi li riceve rappresentano un ultimo inaspettato contatto con il loro caro, e quel che resta di un lutto che non hanno potuto vivere né elaborare.

Io stesso ho vissuto il toccante valore di questi incontri restando dietro alla telecamera.

Alex, non ancora trentenne, che si presenta all’appuntamento vestito bene, evitando di stringere le mani e tenendo la mascherina sul viso. Lui sua madre non ha potuto salutarla. Le spoglie sono tornate a casa in un’urna cineraria: le vittime erano troppe e, nel pieno dell’emergenza, la cremazione diretta era l’unica possibilità.

Alex siede un momento per raccontare che, senza i funerali, gli manca un punto zero da cui ripartire. Sua madre aveva solo 57 anni. Tuttavia nei suoi toni c’è fiducia: ora deve sostenere i suoi nonni, entrambi ancora in vita, che si sono trovati a piangere loro figlia in un modo così inaspettato.

Prima di andarsene, Alex stringe la mano alla volontaria. Entrambi hanno i guanti e conoscono le prassi di sicurezza, ma dopo quell’incontro non possono fare a meno di un gesto di vicinanza.

Durante le restituzioni, le cose ritrovate nelle borse si mischiano così alle parole e agli sguardi. Letizia, una ragazza incinta, sorride tra le lacrime scoprendo nel sacchetto di suo padre la pallina da golf che usava come portafortuna.

Gianluca, un uomo sulla sessantina, parla dei suoi dilemmi: avrebbe voluto fare di più per proteggere chi amava. Lo dice aprendo la piccola valigia che la psicologa gli restituisce. Dentro ci sono pochi abiti e due fotografie di famiglia fatte di abbracci e visi sereni. Sua madre le aveva portate con sé in ospedale per non sentirsi sola, e ora, dentro a quella valigia, hanno la triste solennità delle reliquie di un santo.

Questi sono solo alcuni dei momenti che si sono avvicendati nella piccola stanza allestita dai volontari per la riconsegna ai parenti.

Tuttavia, più raccoglievo testimonianze di restituzioni, più avevo la sensazione che l’eco potente di questo gesto di condivisione dovesse esser raccontato, almeno in parte, anche nella dimensione intima delle case a cui gli oggetti tornavano.

L’esigenza di andare in profondità mi ha portato a consolidare il mio rapporto con Daria, una delle psicologhe volontarie che si occupava delle riconsegne ai familiari.

Daria non è una semplice volontaria: il Covid le ha portato via il padre in pochi giorni senza darle la possibilità di un ultimo saluto. Si è trovata quindi – e innanzitutto – dall’altra parte, per ritirare dalle mani dei volontari gli oggetti di suo padre, affrontando una perdita difficile da accettare. Quel rito di restituzione, così accurato e sentito, là dove non c’era ancora stato lo spazio per nessun altro rituale che accompagnasse il lutto, fa nascere in lei il desiderio di mettersi al servizio degli altri. Non presta attenzione a chi le sconsiglia di avvicinarsi in quel momento anche al dolore degli altri, anzi. Sente che solo nella vicinanza e nella condivisione si può superare un momento così tragico.

Attraverso Daria ho così potuto raccontare anche il ritorno a casa degli oggetti di suo padre, quello che suscitano tra quelle mura rese impenetrabili dal lockdown, e nei ricordi dei nipoti che stanno imparando a coltivare il giardino del nonno, alle prese con un lascito che necessita di comprensione e di tempo.

Uno dei figli diciassettenni di Daria sta realizzando un cortometraggio sul nonno. Questo gli consente di ordinare i pensieri e gli sguardi in avanti, raccontandosi in una lunga riflessione che, mentre la sua opera prende forma, ha la forza di permeare e accompagnare l’intero racconto del film documentario.

Ho scelto di raccontare questa storia per cercare di dare spazio a qualcosa di diverso dal dramma dei reparti pieni e dell’emergenza che ha travolto il territorio in cui sono cresciuto. Qualcosa di più intimo e forse meno raccontato.

La mia osservazione vuole partire da un momento mai vissuto prima, vale a dire l’impossibilità di accompagnare i malati nei loro ultimi istanti di vita, per allargarsi in una riflessione più ampia, destinata a raccogliere i preziosi resti di una generazione che se n’è andata senza l’omaggio che meritava.

La restituzione di ogni oggetto diventa così un momento estremo e profondo: simbolo di un rituale funebre che non si è riusciti a compiere, ma anche di una società che resiste, cercando di rimanere unita anche nei momenti più duri.

Credits:

 

Tutte le immagini a corredo dell’articolo sono tratte dal set di Quel che resta di  Gianpaolo Bigoli.