Una riflessione libera su creatività, finzione e paesaggio, attraverso l’opera di Luigi Di Gianni: “Appunti per un film su Kafka: Nella colonia penale”.

Riflettendo sulla figura del grande documentarista e regista Luigi Di Gianni viene spontaneo partire dal binomio realtà/finzione. Un binomio che nel caso di Di Gianni perde la sua definizione netta per fondersi in un continuum, in uno sguardo cinematografico a cavallo fra i mondi. Si può parlare di un cinema che non tradisce mai lo spirito documentaristico, anche quando si tratta di finzione. E che nella finzione ci riporta sempre all’idea di un dialogo con il reale, per quanto allucinato. Un racconto che parte da ciò che è visibile per distillarlo, per operare una traslazione su nuovi piani, che si manifestano nello sguardo estetizzante e “sintetizzante” dell’autore. Come se Di Gianni con ogni suo lavoro avesse voluto costruire mondi paralleli, coinvolgenti, stranianti, belli, anche nel loro essere grotteschi. Mondi al limite. Mondi legati, a volte da un filo sottilissimo, al senso del mistero onnipresente, a quel confine labile tra sacro e profano tipico della religiosità popolare del nostro Sud, da dove Di Gianni proveniva e dove tornava frequentemente.

Lugi Di Gianni durante le riprese di "Nella colonia penale"

Abbiamo incontrato Luigi nel 1996, durante una delle prime edizioni della Rassegna del Documentario Italiano – Premio “Libero Bizzarri” a San Benedetto del Tronto. Una manifestazione che si può definire pionieristica, quasi “eroica”, nel panorama del documentario italiano. Da quel primo incontro nacquero un’amicizia e una relazione artistica a volte non facile, ma sempre stimolante. Abbiamo collaborato con Di Gianni in più occasioni, e ogni esperienza, partita come un progetto cinematografico dai contorni ben definiti, almeno sulla carta, si è sempre trasformata, man mano che ci si addentrava nella fase di ripresa, in un’avventura creativa totalizzante, piena di incognite e di sorprese. Era come se Luigi potesse attingere in ogni momento ad un immenso patrimonio interiore di immagini e di conoscenze, che gli permetteva di interpretare le situazioni con sicurezza assoluta e con assoluta originalità, e sempre in modo imprevedibile.

Nel 2006 la Ethnos produsse con Di Gianni un documentario inizialmente intitolato Matres Matutae, in riferimento alle statuette risalenti all’epoca pre-romana scoperte nei pressi di Capua, in provincia di Caserta. Le Matres Matutae rappresentavano divinità femminili dai seni enormi, simboli di fertilità e di ricchezza. Per realizzare questo documentario, poi ribattezzato La Madonna in Cielo, la “Matre” in terra, Luigi percorse l’Abruzzo, la Puglia, la Sicilia e la Campania, alla ricerca delle diverse rappresentazioni delle Madonne protettrici del parto e della fertilità, raccontando le storie di acque sacre, di pani benedetti, addentrandosi nelle grotte rituali dove le persone seguono percorsi di rigenerazione e rinascita. Nel film, narrato da Peppe Barra, Luigi conversa con Antonietta, “guaritrice dell’utero”, anziana depositaria di un sapere arcano, secondo cui l’utero femminile si chiama “matre” ed è rappresentato come un ragno dalle molte gambe…

Alla produzione di La Madonna in Cielo, la “Matre” in terra, trasmesso da RAI TRE, seguirono molti incontri a Bologna (quando Luigi veniva da Roma per assistere alla rassegna “Il Cinema Ritrovato”) e molti scambi di idee e di progetti. Dopo alcuni anni lavorammo insieme al Progetto Kafka. È necessario dire che lo scrittore praghese aveva sempre rappresentato per Luigi una sorta di ossessione. 

“Il mio rapporto personale con Kafka era iniziato molto tempo fa, quando a vent’anni avevo letto Il Processo nel giro di tre notti insonni, invaso da una ‘dolorosa felicità’. Da allora, la figura e l’opera di Kafka mi hanno accompagnato in molti miei pensieri di cinema. Quello che mi colpisce è la grande attualità di Kafka: nelle sue opere lo scrittore praghese, che aveva vissuto negli anni zero e dieci (era morto nel 1924) del Novecento, aveva previsto nonché anticipato molti degli orrori e delle follie che avrebbero poi segnato il ventesimo secolo. Tuttora noi siamo dentro Kafka e uno scrittore, se è universale, è sempre attuale. Ecco che ancora oggi, a distanza di molti decenni, mi ritrovo a dialogare con Franz Kafka”.

(Luigi Di Gianni)

Matres Matutae

Inizialmente il Progetto Kafka doveva essere una trilogia: un prologo girato a Praga (di cui però non si fece mai nulla) e due mediometraggi tratti da racconti di Kafka. Ci trovammo a condividere una nuova, intensa avventura con Luigi, che nonostante l’età avanzata, non esitò a tuffarsi con grande energia nella produzione dei due mediometraggi di finzione: Un medico di campagna e Appunti per un film su Kafka. Nella colonia penale.

Renato Scarpa in "Un medico di campagna"
Elvezia Balducelli e Raffaele Braia in "Un medico di campagna"
Renato Scarpa e Elvezia Balducelli in "Un medico di campagna"
Una scena di "Un medico di campagna"

Se il lavoro su Un medico di campagna seguì un percorso abbastanza lineare, lo stesso non si può dire della produzione di La colonia penale, che rappresentò per noi e per l’intera troupe coinvolta nelle riprese un’esperienza veramente indimenticabile, nel bene e nel male. Il racconto, scritto da Kafka nel 1914, narra il preludio di una condanna a morte, la mera e fredda descrizione delle modalità di un’imminente esecuzione. La condanna sarà eseguita tramite uno strano macchinario, un “apparecchio singolare”, per dirla con le parole che aprono il racconto, un congegno di tortura che teoricamente andrà ad incidere con degli aghi il corpo del malcapitato. Questa inquietante trama, che ruota attorno al conflitto tra il “vecchio” e il “nuovo” concetto di giustizia, aveva trovato la sua collocazione ideale, nella mente visionaria di Luigi, nella zona del Polesine, tra i meandri del Delta del Po, in un paesaggio liminale, vago, indecifrabile. Un’ambientazione “immersa tra le nebbie, che sprofonda in un’atmosfera senza orizzonti”.

L’ambiente del Delta fu espressamente individuato dal regista proprio per quel suo essere confine evanescente, soglia fra condizioni diverse, per la potenzialità di evocare mondi “altri” e di accogliere perfettamente il paradosso kafkiano.

Lo zuccherificio Ca' Tiepolo, Porto Tolle (RO)
Lo zuccherificio Ca' Tiepolo, Porto Tolle (RO)
Ambienti scelti per le location di "Nella colonia penale"
Paesaggi del Delta del Po
Ambienti scelti per le location di "Nella colonia penale"

“L’esplorato­re, una sorta di misterioso monaco visitatore, apparirà tra le nebbie nelle acque del Po, su una barca rudimentale guidata da una specie di Caronte che emerge dagli inferi, e alla fine scomparirà nello stesso modo misterioso, lasciando sulla riva il soldato e il condannato che si inseguono con giochi infantili.”

(dalle note di regia di Luigi Di Gianni)

Renato Scarpa in una sena di "Nella colonia penale"

Mai scelta di una location fu più appropriata: l’antico Zuccherificio di Ca’ Tiepolo a Porto Tolle, un enorme stabilimento ridotto ormai ad una rovina, pieno di vento, di vetri rotti e di ferro arrugginito, divenne il luogo centrale del nostro calvario narrativo, un ambiente ideale per suggerire il senso di spaesamento e di minaccia legato all’esecuzione incombente. Casolari di pescatori, edifici abbandonati da anni, e le spiagge deserte del Delta completarono il quadro. 

Una scena di "Nella colonia penale"

“La vicenda sarà collocata in una landa desolata, un ambiente arcaico con edifici logori e disadorni, soffitti bassi e incombenti o altissimi e misteriosi, arredamenti talora compositi. L’illuminazione sarà contrastata, di tipo espressionista, con candele e lanterne. La macchina infernale per le esecuzioni capitali, in questa versione, sarà una specie di mulino alimentato dalle acque del Po. I personaggi vestiranno costumi vagamente contadini, di un’epoca imprecisata, e costumi militari o borghesi di ispirazione mitteleuropea, ma sempre in generale fuori del tempo”.(dalle note di regia di Luigi Di Gianni)

Il periodo scelto per le riprese fu l’inizio di dicembre del 2012, che si rivelò essere un anno particolarmente gelido. Mentre preparavamo il set per le riprese, ci rendevamo conto che qualcosa non quadrava: il tempo si faceva sempre più inclemente, ogni minuto dovevamo affrontare un nuovo imprevisto, la costruzione della macchina di tortura diventava ogni giorno più difficile. Nulla andava come doveva andare. Ad un certo punto la sensazione era quella di essere entrati in un labirinto senza uscita. 

Una scena di "Nella colonia penale"

Con il passare dei giorni l’incubo kafkiano prese via via il sopravvento, si concretizzò. L’intera troupe, gli attori, i collaboratori locali, le maestranze, tutti ci ritrovammo immersi in un vero e proprio psicodramma collettivo, in cui la distinzione tra opera cinematografica e vita reale si faceva via via sempre più labile. Alle prese con la “macchina infernale” che non aveva alcuna intenzione di funzionare, sotto la neve, spingendo macchine sceniche ricavate da vecchi ingranaggi industriali, lavorando fino a ore improbabili, in una sorta di campagna di Russia cinematografica, ci trovammo a dubitare fortemente di ogni cosa, persino che ci fosse, là fuori, una realtà “vera” a cui presto saremmo tornati.

Paesaggi del Delta del Po

Ma, come in tutti gli intrecci narrativi che si rispettino, bisognava andare avanti, superare le avversità, completare la produzione, fino alla fine.

E così ’incubo kafkiano finì, la troupe tornò a casa, il film prese forma, fu trasmesso da RAI TRE – FUORI ORARIO, e restò nelle nostre menti come un episodio intraducibile, misterioso, una specie di viaggio fuori dal tempo, in cui, per un attimo, avevamo assistito all’irruzione di un mondo parallelo, creato dalla mente fervida di un grande regista, che amava giocare con le ambiguità e che amava attraversare il confine tra ciò che è vero e ciò che, forse, è ancora più vero.

La troupe al lavoro, al centro Luigi Di Gianni

Tutte le immagini dell’articolo sono di Marco Mensa.