Sul set di "Strada provinciale delle anime", di Gianni Celati

Tonino Guerra e Roberto Roversi hanno contribuito alla tua formazione artistica, letteraria e cinematografica. In che modo?

Hanno entrambi contato tantissimo, aggiungerei Gianni Celati, insieme sono stati fondamentali quando avevo vent’anni. Feci leggere i miei primi racconti a Tonino Guerra, vivevo a Roma e fu facile rintracciarlo e spedirli nella sua casa romana a Piazzale Clodio. Ci incontrammo e inviò i miei scritti sia a Roberto Roversi a Bologna che a Gianni Celati. Celati apprezzò i miei raccontini, che gli avevano ricordato Robert Walser che non conoscevo, diventato uno dei miei scrittori culto. Lasciai poco tempo dopo Roma per tornare a Bologna, mi vedevo con Celati, andavo a prenderlo alla fine delle lezioni, al Dams, dove lui insegnava letteratura angloamericana, e poi andavo in Palmaverde a parlare con Roversi. Fu il primo a pubblicare un paio dei miei racconti, su Incontri 2000, una rivista dove lui aveva una rubrica, successivamente fu Celati che ne pubblicò tre sul Manifesto, nella rubrica Narratori delle riserve, che lui curava all’epoca. Tonino Guerra mi chiamò a seguire i suoi corsi di sceneggiatura a San Marino, e per due anni l’ho seguito. Sono stati i miei tre mentori, in un certo senso. E devo dire che quello con Roversi fu l’incontro più toccante, si era sottolineato tutte le cose da dirmi sui miei racconti, quindi la cura, proprio il fare paterno, che aveva non solo con me ma con tutti i giovani che bussavano alla sua Palmaverde. La sua lezione è stata proprio quella di fare le cose senza il bisogno di raggiungere chissà quale traguardo, cioè scrivere era un bisogno, una necessità, una passione e lui mi disse lo farai, lo farai perché non puoi fare altro. Sono stati tutti e tre degli incontri fondamentali.. 

Con Stefano Casi e Andrea Adriatico, lavorando a "Gli anni amari"

Come è nata la tua esperienza con Celati nel documentario Strada provinciale delle anime e che ricordi hai di quel viaggio?

E’ nata un giorno ai Giardini Margherita, guardando le anatre.  Mi disse che mi voleva come attrice, in questo film perché avevo degli occhi che dicevano tutto, e che dovevo riprendere in mano questo mestiere che avevo fatto da ragazzina per un po’. Per cui mi disse “vi metto tutti, amici cari, famigliari, su una corriera, andiamo alle foci del Po e giriamo Strada provinciale delle anime. E ti darò un monologo, dovrai impararlo”. Fu bello, furono dei giorni molto intensi, ricordo, e lì nacque la mia amicizia con Luigi Ghirri, io ero una giovane punk, avevo questi capelli, platino, un look dark, usavo molto il rosso fiammante, e Luigi diceva che gli piacevano molto i miei colori, mi fotografava sempre, ho molte foto di Luigi Ghirri, che tengo come un ricordo preziosissimo. E’ stata un’esperienza bellissima, partivi e non sapevi quello che sarebbe successo. Gianni Celati all’epoca era un uomo bello, brillante, con un sacco di idee, molto brillante. Lo seguivi trascinata da questo carisma, mi ha sempre coinvolto anche nelle camminate, andavamo alla Lunetta Gamberini, ci sedevamo su una panchina a guardare le partite di tennis, e lui mi diceva quanto gli sarebbe piaciuto descrivere quel momento così com’era, senza alterazione, rappresentare le cose esattamente come le vedi, e parlavamo del mondo, di tante cose. A volte era anche un po’ lunatico, però gli devo tanto, tanto.

Dal tuo romanzo Quo vadis baby?  sono stati tratti un film per il grande schermo e una serie televisiva. Come hai contribuito alla loro realizzazione?

Sono passati parecchi anni, fui pagata come sceneggiatrice per Quo vadis baby?, il film di Salvatores. Lavorammo tanto insieme, poi lui non era soddisfatto, andò a Ibiza da solo e mi disse: ”guarda voglio proseguire il lavoro per conto mio” e io gli dissi “benissimo”, non c’era nessun problema. E dopo, non mi scorderò mai, ero a fare una presentazione del libro Quo vadis baby? a Gallarate, ero in un hotel, e lui mi fece mandare con un pony express l’ultima versione della sceneggiatura, perché voleva un mio parere. Non ho firmato la sceneggiatura, però questo non significa che non fossi soddisfatta del film. A me il film è piaciuto per cui: niente da recriminare, anzi. Per la serie tv mi chiesero di scrivere tre soggetti originali, che poi furono in parte le trame dei successivi romanzi con Giorgia Cantini, Di tutti e di nessuno e Velocemente da nessuna parte, però non ho collaborato alle sceneggiature. Mi dispiacque il fatto che nel gruppo di lavoro, nella squadra, non ci fossero donne, almeno così ricordo, ed era strano visto che la protagonista assoluta era una donna. Mi inorgoglisce comunque che l’investigatrice Giorgia Cantini fosse un personaggio nuovo sulla scena letteraria noir, politicamente scorretto, e soprattutto avere fatto da apripista alle autrici che poi si sono interessate al genere noir, che hanno costruito le loro detective, le loro atmosfere gialle. Questo mi ha fatto sempre molto piacere, però mi rendo conto che ancora oggi scontiamo in Italia un atteggiamento paternalistico, un po’ maschilista, rispetto ai personaggi femminili “gialli”, infatti nelle serie tv canoniche c’è molto giallo rosa, che è più rassicurante rispetto a un noir di inchiesta o molto scuro.

Con Riccardo Marchesini, lavorando ad "Amati fantasmi"

Nello scrivere un film come Gli anni amari, che tipo di rapporto hai avuto con il soggetto, con la scrittura, con la regia?

Con Gli anni amari è stato abbastanza facile perché avevo già lavorato con Andrea Adriatico, regista, per almeno due pièce teatrali, su Francesco Lorusso, sul ’77, e Andrea voleva fare un film su Mario Mieli. Io incominciai a leggermi tutto quello che trovavo, i libri di Mario Mieli, per capire che figura era, il personaggio, l’intellettuale scomodo, morto suicida giovanissimo. Quindi a vedere i filmati, i video con Stefano Casi, abbiamo fatto veramente un grande lavoro di ricerca. Adesso stiamo lavorando a un documentario su Tondelli con sette scrittori under 40. Si è cercato di scegliere quelli più interessanti sul territorio nazionale, e assegnare ad ognuno un libro di Tondelli, questa è stata un’idea di Andrea, che io ho sposato subito, e poi sette città diverse, dove girare: non so a Rimini Rimini, all’Aquila Altri libertini, perché fu sequestrato e ci fu il processo all’Aquila, a Berlino Camere separate, eccetera. Il lavoro vero è stato rileggersi tutto Tondelli, segnarsi e scrivere tutta una serie di cose che facevano da corollario al personaggio, per capire che cosa era importante dire di lui, e poi stilare una serie di domande da porre ai giovani autori.

Con Riccardo Marchesini il lavoro è stato diverso. Mi ricordo che mi chiamò a scrivere la sceneggiatura de Gli ultimi, scrivemmo insieme questo film di mezz’ora, che poi andò con L’Unità in edicola, e vinse anche qualche premio, e da lì ci sono poi state varie cose che abbiamo fatto insieme. Però il lavoro più bello è stato proprio l’ultimo, dedicato alla casa di riposo Lyda Borelli, Amati fantasmi, perché mi ha dato carta bianca e dovevo scrivere tutta la parte fiction, che avrebbero recitato attori che conosco, che sono meravigliosi, da Vetrano a Randisi, Elena Bucci, Lucia Poli, poi la voce di Giulia Lazzarini. Era un progetto che mi entusiasmava e poi, avendo amato molto il teatro, avendolo scritto, era un omaggio a un mondo in via di estinzione e ci tenevo che venisse bene.

Maternity in blues di Fabrizio Cattani: un’altra esperienza di scrittura, di cinema di finzione?

È stato facile scrivere la sceneggiatura perché era tratta da una opera drammaturgica, mia, bisognava solamente rendere meno letterari i dialoghi, più colloquiali per il cinema. Il film fu presentato a Venezia, distribuito da Fandango, e vinse all’estero vari premi. Io non l’ho seguito tanto, gli sceneggiatori, alla fine, non sono come il regista. La soddisfazione maggiore è stata vincere il premio al Bif&st, festival allora diretto da Ettore Scola, per la migliore sceneggiatura, sono stata contenta perché il premio era intitolato a Tonino Guerra e mi è sembrata la chiusura di un cerchio. È un film che ha avuto un circuito più all’estero, ai festival, era piuttosto cupo, tosto, per cui in Italia non è rimasto nelle sale molto tempo. Anche lì il regista ha dato la sua impronta, tu lavori a una sceneggiatura ma poi non sai cosa salterà fuori, il film è del regista, ce lo diceva sempre anche Tonino Guerra: “magari voi ci mettete l’idea, ci mettete i dialoghi, però il film è sempre e comunque del regista”. È così.

Con Gianni Celati, sul set di "Strada Provinciale delle anime"
Luigi Ghirri sul set di "Strada Provinciale delle anime"

La tua esperienza da giovane come attrice e musicista ha contribuito alla tua scrittura cinematografica?

Io penso di sì, che abbia contribuito alla scrittura tout court, di qualunque cosa si tratti, che sia un romanzo o una sceneggiatura, oppure un racconto. La mia esperienza di attrice mi ha aiutato. Quando ero giovane leggevo una montagna di testi teatrali, perché ero sempre alla ricerca di monologhi da memorizzare come attrice alle audizioni. Questo mi ha aiutato molto per la scrittura dei dialoghi, così come mi ha aiutato Tonino Guerra, nei corsi di sceneggiatura, a capire la differenza fra un dialogo cinematografico e un dialogo teatrale o letterario, nel senso che ci sono delle differenze, in un romanzo ti puoi permettere una letterarietà che nel cinema è controproducente. L’esperienza della musica è compenetrata in tutto, perché ho imparato a mettere prima le mani sulla tastiera di un pianoforte e poi su una macchina da scrivere. Per me è stato fondamentale fin da subito cercare il ritmo, anche la sonorità delle parole, la sintesi, gli accordi minori e maggiori: il lavoro sulla scrittura per me è un lavoro musicale. Roversi diceva che ero immaginifica, che si vedeva tutto, perché il cinema ti insegna questo, quando scrivi “vedi” le cose, te le immagini. Vengo da una generazione che ha inglobato, miscelato, le varie forme artistiche: il teatro, la musica, il cinema, il fumetto, tutto rientrava, tutto era creativo e affascinante.

Tutte le immagini dell’articolo sono state gentilmente fornite da Grazia Verasani.