Mario Fantin, cineasta dell’avventura
Mauro Bartoli racconta il suo ultimo film “Il mondo in camera”, sulla figura di Mario Fantin.
Sbagliare montagna
Raccogliere migliaia di documenti, mappe, cartografie, resoconti di viaggi e spedizioni nelle terre inesplorate.
Fare un enorme archivio. L’archivio completo, dove dentro c’è tutto: tentativi e conquiste, le imprese riuscite e quelle fallite.
Documentare ogni cosa.
Scoprire come si chiama una montagna, non trovare il nome, quindi darglielo: Nevado Marconi, Bononia…
Fare la stessa cosa con le insenature della Groenlandia. Incrociare mappe navali. Riempire gli spazi del mondo con dati tecnici e poi nominarli, perché solo se hanno un nome, se hanno un’identità, se ne può parlare senza confonderli.
Quanti versanti e quante cime ha una catena montuosa? Trovarli tutti.
Ci sono state spedizioni in cui si era convinti di scalare una montagna, invece era un’altra.
È andata anche così. Erano gli anni ’50 e ’60 del Novecento.
Era un periodo in cui ci si poteva perdere.
Si poteva sbagliare montagna.

Il suo nome è Mario Fantin
Bologna. Gennaio 1981.
Nevica forte. Alcuni operai trasportano casse e casse piene di documenti, fotografie, mappe, film.
Nella casa ci sono tante sculture africane, opere precolombiane, tappeti Inuit. Tracce dei mondi in cui è stato. Appesa al soffitto incombe una creatura feticcio, per danze propiziatorie e rituali della Costa D’Avorio. Armadi, scaffalature riempiono gli ambienti.
Sono due appartamenti uniti e trasformati in archivio. Qui ha sede il CISDAE, il Centro internazionale sulle spedizioni alpinistiche extraeuropee.
Qui si conservano decine di migliaia di documenti raccolti in cartelline numerate e in grandi faldoni.
Nella casa ormai non c’è più spazio.
Un uomo, da solo, ha fatto tutto.
Il suo nome è Mario Fantin.

Il film Il mondo in camera
Sono oltre dieci anni che è iniziato questo viaggio. Di ritorno dal Trento Film Festival, dopo aver assegnato il Premio Città di Imola, con Giorgio Bettini inizio a parlare di una mostra su un grande personaggio, Mario Fantin, che ormai conoscevano in pochi, perché dimenticato. Triste destino per un uomo che aveva dedicato la vita a conservare e catalogare. Una mostra che si era tenuta a Imola e a Torino, nel Museo Nazionale della Montagna, che avevo visto, mi era piaciuta, ma che non sarebbe mai tornata fuori, se non stimolata nel ricordo dai racconti di chi l’aveva ideata e organizzata: Giorgio Bettini, appunto. E così, nelle ore del viaggio in macchina, Giorgio inizia a raccontare come solo un vecchio giornalista sa fare: curiosità, aneddoti, note storiche, personaggi, fatti e vicende.

Mario Fantin, di famiglia friulana, nato a Bologna nel 1921.
Diplomato ragioniere, un posto sicuro ad amministrare il commercio di famiglia, viene chiamato alla guerra. Dopo l’accademia militare, viene mandato sul fronte slavo, nelle montagne del Kossovo e Montenegro. Qui Mario Fantin, giovane comandante di una batteria di mortai, vive la tragedia dell’esercito italiano che, dopo l’8 settembre 1943, si ritrova abbandonato, con gli alleati tedeschi che diventano i nuovi nemici, e i partigiani slavi, che fino a quel momento si erano combattuti, da un giorno all’altro sono i nuovi alleati.
La compagnia di Fantin decide di non consegnare le armi. Sono mesi d’inferno, con combattimenti e massacri, marce nella neve inseguiti dai nemici. Si muore di guerra, di fame e di freddo. La compagnia è decimata. Ferito e ammalato, il giovane soldato Fantin viene trasferito in Italia, all’ospedale militare di Bari. Resta ricoverato un anno e in ospedale scrive di ciò che ha vissuto nei mesi della guerra. È questa la necessità che lo accompagnerà tutta la vita: scrivere affinché le cose vissute non vadano perse. Pur stanco e debilitato, Mario Fantin scrive a mano un diario, che poi ricopia in bella calligrafia.
Ma questo non basta, perché una volta rientrato a Bologna si dedica, per mesi, alla realizzazione di un diario fotografico, un reportage dei mesi di guerra, nel quale inserisce centinaia di fotografie realizzate nei “1800 giorni di naja”. Una volta ultimati i due diari, li mette al sicuro perché nessuno li trovi. Non vuole che vengano letti. La cosa importante è che esistano, che siano custodi della storia che ha vissuto.
Verranno ritrovati alla sua morte.

Per riabilitare il fisico, Fantin inizia ad andare in montagna. E questa attività lo stimola alla fotografia, di cui è appassionato fin da ragazzo, e al cinema. Realizza i primi film sui bachi da seta, sulle api, sui fiori in montagna. Si prepara tecnicamente. È una persona precisa, attenta alla tecnica e alla tecnologia. Sperimenta.
“Mi chiedo come sia possibile che a neanche dieci anni dalla fine della guerra io possa essere qui, a prendere parte ad una missione così importante”.
Questo scrive Fantin nel suo diario, quando viene accettata la sua richiesta di prendere parte alla spedizione del 1954 alla conquista del K2, la grande montagna, seconda per altitudine. La più difficile.
E così Mario Fantin prende parte alla spedizione di Ardito Desio, con il ruolo di fotografo e cineoperatore che deve documentare l’impresa.
Realizza riprese eccezionali, in condizioni estreme. Ha il compito di documentare, ma non può interferire con la spedizione: non può chiedere aiuto, non può chiedere agli alpinisti di fare qualcosa per le riprese. Fantin si sposta, cerca l’inquadratura, riprende. Resta appeso in cordata per registrare gli altri che salgono. È in tenda mentre una tempesta la sconquassa, con i compagni allo stremo per freddo e fatica che si scaldano un po’ di neve in un pentolino. E in quella bufera, Fantin riprende, utilizzando una cinepresa 16mm a carica manuale. Poi esce dalla tenda, si immerge nella bufera di neve e vento, e riprende la tenda da fuori, travolta dal maltempo.
Ha bisogno di raccontare a chi non c’è, a chi è a casa, cosa significa vivere in condizioni estreme, cosa significa scalare una montagna di oltre ottomila metri.

La spedizione arriva alla cima con Compagnoni e Lacedelli.
La notizia fa il giro del mondo. A pochi anni dalla fine della guerra, rappresenta un segnale che l’Italia manda al mondo: il paese è in piedi e sa compiere imprese straordinarie. Nel frattempo però, all’insaputa di Fantin, il film sulla spedizione vedrà alla regia Marcello Baldi. È un brutto colpo per Fantin, che però non può opporsi per aver firmato ogni condizione pur di partecipare alla spedizione.
Il film Italia K2 ottiene uno straordinario successo. Nei titoli Mario Fantin compare come operatore.
Le sue riprese ottengono grande consenso sia tra gli appassionati di montagna, sia tra i critici cinematografici e Fantin inizia ad essere chiamato a documentare le spedizioni extraeuropee: in ogni continente, nei deserti e in montagna, tra i ghiacciai e in Africa, in Oriente e nell’Amazzonia. Mario Fantin viaggia e filma, poi scrive e compone libri, monta i film e li proietta in serate alle quali viene invitato a raccontare le esplorazioni oltre i confini del mondo civilizzato.
Importante per il suo lavoro è l’incontro con Guido Monzino, che lo chiama a documentare le spedizioni che organizza in diversi continenti.



Questa è la vita di Fantin per vent’anni: partecipare a spedizioni, scrivere, filmare, fotografare, pubblicare libri e film, ripartire.
Negli anni sviluppa il progetto di realizzare un grande archivio sulle spedizioni nel mondo. Via via il progetto assorbe tutto il tempo di Fantin, che lavora giorno e notte, da solo, a raccogliere informazioni e documenti, a catalogare, a contattare alpinisti ed esploratori per avere resoconti, fotografie e mappe delle spedizioni riuscite e di quelle mancate.
È un lavoro immane, che divora ogni attimo, che schiaccia ogni momento sotto il peso della responsabilità di riuscire a salvare la memoria, il racconto di ciò che si è fatto.
Dopo anni vissuti nella natura più estrema e selvaggia, a scalare montagne, ad attraversare deserti africani e ghiacciai, ad avventurarsi nelle foreste, Mario Fantin trasforma la sua casa nell’archivio CISDAE e vi si chiude dentro.
Nel luglio del 1980, all’età di 59 anni, Fantin decide di andarsene con un colpo di pistola, utilizzando l’arma che aveva come soldato, che si era rifiutato di consegnare nei giorni dell’armistizio, ed aveva conservato.
Con la sua morte, l’archivio viene diviso tra alcuni musei italiani. Il CISDAE, sulle spedizioni alpinistiche extraeuropee, va al Museo della Montagna di Torino.
Tante cose restano ai famigliari.
Nel giro di qualche anno la storia di Mario Fantin viene via via dimenticata. I suoi libri sono fuori mercato, alcune case editrici che li pubblicarono non esistono più.


Inizio a lavorare al film. Si crea, sul progetto, una rete di interesse che mette insieme il CAI, la Cineteca Nazionale Cai, il FAI, l’Associazione Amici del FAI, il Museo Nazionale della Montagna di Torino, la Cineteca di Bologna, Home Movies, Cervelli in Azione, la Regione Emilia-Romagna / Film Commission, il Mibac. Tante sezioni Cai aderiscono al progetto, a partire da quella di Imola e di Bologna, che è dedicata a Mario Fantin.
Incontro insieme a Giorgio Bettini i familiari, la compagna Claudia Gallotti, i nipoti Alessandro Fantin e Valeria Tomesani, che saranno fondamentali nel ricostruire la storia dello “Zio Mao”, lo zio delle favole, dei racconti straordinari, che portava storie dei mondi lontani ai pranzi domenicali a casa della sorella.
Insieme a Simone Bachini di Apapaja si inizia la produzione. Fondamentale è valorizzare il lavoro cinematografico di Mario Fantin, far rivedere quel mondo che nei suoi film è riuscito a cogliere e raccontare prima che scomparisse.
Si sviluppa un progetto di restauro dei film di Fantin di cui utilizzo brani, a partire da Italia K2. Parte un lavoro straordinario di recupero e digitalizzazione dei laboratori dell’Immagine Ritrovata di Bologna.
Nel racconto sento la necessità di avere alcune testimonianze di persone che possano portare nel film la propria storia, la propria esperienza, che in alcuni momenti si è intrecciata con quella di Fantin: Pierino Pession e Antonio Carrel, guide alpine del Cervino che hanno partecipato a diverse spedizioni Monzino, aiutandolo nelle riprese, soprattutto per gli spostamenti necessari ai campi lunghi che consentono di vedere la cordata da lontano (e Fantin si è allontanato per riprenderla); Kurt Diemberger, straordinario alpinista e cineasta di montagna; Valeria Tomesani, la nipote che ha conservato ogni cosa dello zio.
Ricostruiamo inoltre alcuni spazi dell’immaginario, trasformati in luoghi fisici, per dare corpo e forma ai sogni, alla fatica, agli entusiasmi, ai momenti di sconforto. I pavimenti della casa scompaiono e diventano distese di ghiaccio.
Al montaggio con Fabio Bianchini si costruisce un racconto che si sviluppa sulle parole di Fantin, da ciò che ha lasciato scritto nei libri, nelle lettere, nei diari.
Si lavora. Ci si ferma. Si riparte. Si rinvia.
Siamo pronti. Ancora no, solo un momento per riguardare e ripensare ad una parola che manca, ma andava detta.
Ecco, dopo anni, il momento di lasciare andare il film.
Sento, come Mario Fantin, l’ansia del narratore che si fa carico di trasformare una vita in racconto, affinché possa essere condiviso, perché in questo modo resti nel tempo.
Gli devo tanto, spero di esserci riuscito.
Questa è la storia di Mario Fantin, narratore dell’avventura, che filmò il mondo lontano con la sua camera 16mm, e per salvare quel mondo che lentamente scompariva lo portò a casa, nella sua casa, e lo mise in ordine dentro cartelline e faldoni, perché ne rimanesse traccia, per noi, per chi verrà.
Riferimenti:
Note:
Il film Il mondo in camera sarà presentato alla 70esima edizione del Trento Film Festival, 29 aprile – 8 maggio 2022
In copertina: Mario Fantin alla cinepresa.
About Author / Mauro Bartoli
Regista, sceneggiatore e produttore cinematografico indipendente, nel 2011 ha fondato la società di produzione Lab Film, con sede a Imola.