La carriera fuori campo di Margaret Collina
Abbiamo incontrato Margaret Collina, speaker e doppiatrice bolognese, che ci ha parlato della sua carriera, svelandoci l’importanza di un uso consapevole della voce.

Com’è iniziata la tua esperienza come doppiatrice e speaker?
Quando avevo 15 anni ho conosciuto Cesare Bastelli, oggi direttore della fotografia di Pupi Avati. Cesare è una persona molto umile e al contempo di successo. Lui aveva fatto l’Accademia Antoniana di Arte Drammatica qui a Bologna e mi esortò a farla anche io, perché pensava che fossi bravissima. A me attirava quest’idea ma avevo un padre molto all’antica e a quell’epoca, e nella sua testa, la donna che faceva l’attrice era considerata una poco di buono…
Era lui che mi metteva dei paletti, mi diceva “Sì va bene fai l’Accademia, però la mattina vai a scuola poi, quando ti sei diplomata, ti laurei e dopo ci pensi”. Io, per non generare liti in famiglia – mia madre avrebbe voluto invece che io mi dedicassi all’arte – ho detto “Signor sì!” e ho fatto tutto ciò che mi aveva chiesto. Ho ottenuto una borsa di studio per frequentare l’università e mi sono laureata. A un certo punto però non ce l’ho fatta più e ho cominciato a portare in giro le cosiddette cassette – perché allora c’erano i VHS su cui venivano registrati i provini – nei vari studi di Bologna.
Qualcuno cominciava a chiamarmi e io – mentre continuavo a insegnare diritto, cosa che ho fatto per qualche tempo – di soppiatto facevo questi lavori. Quando mio padre venne a mancare, nel giro di un anno ho mollato tutto e ho cominciato a fare il lavoro della mia vita. Allora non mi resi conto che era stata una cosa automatica, come una mia liberazione interiore, non mi sono mai detta “Ora che non c’è più mio padre posso farlo”, ma evidentemente è una cosa che avevo dentro e che premeva per uscire.
A un certo punto della mia carriera ho deciso di dedicarmi ai doppiaggi, soprattutto di tipo documentaristico: la cosiddetta “voce fuori campo”.
Ho fatto da voce fuori campo per video e mostre a cura del Comune di Bologna e della Sovrintendenza dei Beni Artistici e Culturali dell’Emilia Romagna, ho registrato audiobooks e audioguide per le Edizioni Entro le Mura di Bologna e Il Narratore audiolibri. Ho lavorato molto con Ethnos, per Geo&Geo, così come per Professione Reporter, il Viaggiatore, Mixer e Report. Insomma la mia voce è stata sentita abbastanza…

E da attrice di teatro, come ti sei appassionata al doppiaggio?
Io non amo espormi, sono una che preferisce stare dietro le scene. A quei tempi ho fatto molte cose, come la lettura espressiva, che andava molto di moda. Con personaggi al livello di Betancourt, Pennac, e tantissimi autori italiani e non italiani. A modo mio sulla scena ci sono stata, ma ogni volta che mi applaudivano… volevo scomparire! Mi piace da morire quello che ho fatto per tanti anni, purché non mi si guardasse, questo era l’importante.
Che preparazione è necessaria per diventare doppiatore?
Ho fatto diversi corsi all’Accademia Antoniana e in altri posti di Bologna dove facevano corsi analoghi. Poi dal 2001, con un’associazione che si chiamava la Bottega dell’Elefante, ho tenuto io stessa dei corsi di dizione e lettura espressiva.
A quei tempi a Bologna forse c’ero solo io a fare questo tipo di corsi, ed è stata una vera passione, perché a me l’insegnamento piace molto, sia che si tratti di diritto o di comunicazione. Quello che mi proponevo in questi corsi non era tanto insegnare che l’accento della “e” potesse essere grave o acuto, ma volevo trasmettere alle persone che comunicare bene vuol dire ottenere moltissimo dalla nostra comunicazione. Diversi studi hanno dimostrato che ciò che rimane di un discorso è solo il 7% del contenuto, mentre quello che resta più impresso è la voce. E se io attraverso la voce riesco a dare anche più forza al contenuto, è una conquista a tutto tondo.


Chi frequentava i tuoi corsi?
Da me sono venuti in tanti, dal giornalista televisivo o radiofonico, al famoso cantante lirico straniero che voleva imparare l’italiano, così come impiegati e studenti. Ognuno con la sua idea di cosa significasse “parlare bene” e con un proprio obbiettivo, che poteva essere totalmente diverso l’uno dall’altro.
Per me era una grandissima gioia vedere le persone che entravano al mio corso parlando in un modo sconnesso, e che poi ne uscivano parlando fluentemente. Molti dopo il corso si sono messi a fare a loro volta lettura espressiva e ad alta voce, creando dei gruppi che esistono ancora oggi a Bologna.
Anche dagli speakeraggi ho avuto delle grandi soddisfazioni, come sentire la mia voce in onda su RAI TRE, o in festival cinematografici importanti, come a Berlino, oppure in diversi documentari a cura di Cesare Bastelli trasmessi da TV2000.
E in cosa risiede secondo te il potere nell’uso della voce? Cosa la rende così importante?
La voce è uno strumento per comunicare dei contenuti e, per quanto la comunicazione si stia spostando sempre più sull’immagine e sul visivo, la voce rimane lo strumento fondamentale per la comunicazione. Il concetto è però il medesimo: se tu usi delle immagini per comunicare e queste immagini sono brutte, non avrai buoni risultati dalla tua comunicazione. Allo stesso modo, se vuoi comunicare verbalmente dei concetti, dovrai usare la voce nel modo giusto altrimenti ne risulterà qualcosa di sgradevole. Succede spessissimo che durante una conferenza, magari anche interessante, dopo un po’ diciamo “Mamma mia che noia, vorrei uscire!” perché alla fine non è più così importante quello che si sta dicendo se a te non viene voglia di ascoltarlo! È fondamentale che dall’altra parte ci sia qualcuno che “ti catturi”.
Ovviamente il successo sta nel mettere insieme un buon contenuto e un modo efficace di comunicarlo.

Quali sono gli aspetti tecnici del tuo lavoro? Ci sono state interpretazioni a cui hai tenuto maggiormente?
C’è da premettere che io non ho fatto la doppiatrice in senso classico, quindi non ho dato voce a personaggi di fiction o di animazione, ma ho lavorato soprattutto nei documentari come voce fuori campo. Nel documentario la voce fuori campo è importantissima, ma non si deve interpretare. Io se qualche volta ho interpretato l’ho fatto durante le letture espressive. C’era una bellissima manifestazione a Bologna organizzata da Coop Alleanza, poi diffusasi in tutta Italia, che si chiamava “Bologna ad Alta voce”. Hanno poi organizzato anche “Venezia ad Alta Voce”, dove erano presenti tutti i grandi doppiatori del nostro cinema e anche io ho partecipato.
La cosa che ho interpretato e che mi è rimasta più a cuore in assoluto è stata la lettura ad alta voce, in modo attoriale, de La ciociara durante la Giornata contro la violenza sulle donne. In quell’occasione ho fatto una selezione di brani tratti da diverse opere, e per La ciociara avevo selezionato quel momento – cinematograficamente fantastico ma dal contenuto terribile – in cui la figlia della protagonista viene violentata dai cosiddetti liberatori. Era una scena molto forte, mi commuoveva, perché io in quel momento ero lei. Poi in quella stessa occasione avevo interpretato anche la telefonata che la protagonista di uno dei tre racconti di Una donna spezzata di Simone de Beauvoir fa al suo uomo, in cui emerge quanto si possa essere violentati e manovrati non solo in senso fisico, ma anche psicologico.
Diciamo che a livello di interpretazione, al di fuori del mio lavoro di speakeraggio, questa è stata l’esperienza che mi ha dato più soddisfazione e più gioia.
Come voce fuori campo invece usavi la voce in modo diverso a seconda della tipologia di documentario?
Sì, assolutamente! È chiaro che se io sono un’ecologista e faccio un documentario a sfondo ecologista, non posso urlare o avere un tono di voce esagitato, dovrò mantenermi comunque abbastanza neutra, perché il mio compito è semplicemente quello di enunciare i principi base dell’ecologia. È diverso fare la voce fuori campo di un documentario in cui si parla, ad esempio, di un terribile terremoto avvenuto pochi giorni prima: io non potrei essere totalmente neutrale, si deve sentire che sono coinvolta, addolorata. Ciò non toglie che deve essere un coinvolgimento contenuto, che lascia spazio a chi ascolta di farsi la propria idea.
Questo credo che sia un po’ lo scopo del documentario, che riguarda sia le immagini che la voce: la voce fuori campo nel documentario deve accompagnare lo spettatore attraverso il suo viaggio per immagini.
Sul territorio bolognese hai avuto altre esperienze interessanti?
Considera che per dieci anni sono stata chiamata dai licei di Bologna, tra i quali il Copernico e il Galvani, a insegnare ai ragazzi a leggere come si deve. Vederli leggere il Manzoni e appassionarsi per me è stata una grande soddisfazione, e mi ha reso amatissima dai ragazzi.
Un’altra cosa bellissima era l’evento intitolato “Radiosalotto manzoniano”, organizzato da Roberto Ravaioli per Rai Teche, che si teneva nel cortile del Museo Medioevale di Bologna, che veniva arredato come un grande salotto all’aperto e dove venivano fatte ascoltare le voci dei grandi attori che interpretavano brani dei Promessi Sposi. Anche io e il mio collega leggevamo dei brevi brani al microfono. Abbiamo invitato anche diversi personaggi della letteratura, della musica, dello sport a fare degli interventi e c’è sempre stato il pienone!
Poi devo assolutamente menzionare la mia collaborazione con l’Istituto dei Ciechi “Francesco Cavazza”, con cui ho lavorato a lungo. Con loro ho fatto serate di lettura espressiva per persone vedenti e non vedenti, ho registrato nel loro studio di Radio Oltre diversi audiolibri, ho letto l’audiodescrizione di molti film. Un’esperienza molto interessante.
Insomma il mio percorso lavorativo è molto vario, perché credo che non bisogna mai fossilizzarsi in questo lavoro, ma sia necessario rimanere fluidi per vedere il bello e l’utile di ogni cosa che si fa.
Vorrei concludere parlando di un lavoro che ho fatto ultimamente per un documentario sull’atleta transgender Valentina Petrillo, in cui ho avuto la possibilità di conoscere lei come persona e la sua storia. Spesso quando si parla di persone trans si prendono posizioni basandosi su assunti medici o politici, senza approfondire davvero la realtà che c’è dietro: la loro vita, le loro difficoltà e le loro lotte. Per me è stata un’esperienza molto importante perché ho capito che alla mia età, io che ho sempre amato molto insegnare, posso ancora ritrovare il piacere di imparare.