Gianni Celati. Il cinema, l’incontro.
Ora che Gianni Celati si è incamminato definitivamente verso la sua personalissima finis terrae, sarà giunto il momento di fare un bilancio complessivo della sua opera? Certo, per lui un posto nel canone esiste già da qualche anno, grazie all’ottimo “Meridiano” curato nel 2016 da Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri. Eppure con Celati si ha sempre l’impressione che qualcosa manchi all’appello; che la sua opera, in apparenza tanto ridotta da poter stare in un libro solo (sia pure un “Meridiano”!), in realtà sia molto più vasta; che dietro quella scrittura volutamente, cocciutamente “in minore” (il romanzo è un genere monumentale, diceva, mentre il racconto comune è “un’indiscrezione locale, una violazione d’omertà” che “nasce dalla casualità e dalla ripetitività”) si nascondano invece profondità inaspettate. L’opera di Celati assomiglia a lui: è inafferrabile, sfugge tra le mani, guizza come il Guizzardi protagonista di uno dei suoi romanzi più famosi.
Romanzi, cronache e racconti: così suona il titolo scelto da Belpoliti e Palmieri per l’ampia silloge mondadoriana. Ma c’è dell’altro naturalmente: ci sono i saggi, le traduzioni, le poesie (affidate alla voce e alla penna dell’eteronimo Attilio Vecchiatto), le curatele, le proposte editoriali, i film. Un’opera non solo vasta, quindi, ma anche multiforme, multimediale persino, dotata di una generosità creativa “a rotta di collo”, spesso irrefrenabile e caotica. Questo andamento un po’ mercuriale, per così dire, fa parte senz’altro dell’atteggiamento d’irriverente insofferenza nei confronti dell’industria culturale. “Se tu prendi una narrazione come un oggetto ben determinato, chiuso nei limiti della pagina scritta, sarai sempre ossessionato dall’incombenza del profitto, delle vendite, del pubblico”, ha spiegato nel 2007 in un’intervista con l’amica e traduttrice Marianne Schneider. “Se invece tu prendi una narrazione non come un oggetto determinato, ma come un evento – qualcosa che accade come una ventosità che passa da una testa all’altra… allora non c’è dubbio che corrisponda a un moto espansivo di contentezza”.

Anche in questo caso, però, è meglio non farsi ingannare troppo. L’opera di Celati, così apparentemente sfrangiata e fluida, è invece animata da una segreta e profonda coerenza di fondo. Nel corso della commemorazione che si è tenuta il 21 gennaio 2022 alla Biblioteca Sala Borsa di Bologna, Carlo Ginzburg ha letto pubblicamente una lettera inedita di Italo Calvino. Era datata febbraio 1972: Celati, 35 anni, aveva appena pubblicato il suo primo romanzo, Comiche. Nella lettera, facendo riferimento a Celati, parla di “una sicurezza e una compattezza di pensiero che non fa una grinza”. “Mi sembra chiaro”, conclude, “che quello di Gianni è un corpo di pensiero organico, con un’autorità che risiede nel suo rigore”.
Sempre a proposito di coerenza, quasi mezzo secolo dopo, in occasione degli ottant’anni di Celati, Daniele Benati ha potuto adoperare parole molto simili: “è stato proprio osservando Gianni da vicino, cioè guardandolo lavorare – non importa se a un racconto, a una traduzione, a una conferenza o a una lezione – che ho capito che la capacità critica in una disciplina non è un dono che qualcuno si ritrova a ricevere per puro caso e nemmeno qualcosa che dipende da un gusto personale, ma è il prodotto del pensiero creativo che si è investito in quella disciplina”.

Se la faccio così tanto lunga è perché ho l’impressione che per lungo tempo l’esperienza cinematografica di Celati non abbia goduto della giusta attenzione. Certo, ci sono stati contributi critici di rilievo, da Gianni Canova ad Antonio Costa, da Fabrizio Grosoli a Mario Sesti, alla sempre bravissima Nunzia Palmieri. Ma per lo più rimane la sensazione che i film di Celati siano stati trattati nel migliore dei casi con quella condiscendenza benevola nei confronti del “grande scrittore” che, all’apice della fama, sconfina in un terreno che non è il suo. Nel peggiore dei casi, viceversa, hanno suscitato sconcerto e irritazione.
Era impossibile, sostenevano alcuni, riconoscere Celati in quelle immagini “sporche” e un po’ sbilenche, qua e là puntellate dal voice over, nell’affastellarsi confuso di voci, musiche e rumori d’ambiente. Dov’era finito, si domandavano, l’uomo di straordinaria cultura visiva, l’autore di acuti saggi sul cinema, dalla slapstick comedy ad Antonioni? Dov’era finito l’amico ed esegeta di Luigi Ghirri, Carlo Gajani e altri fotografi? Possibile che fosse tutto lì, in quelle chiacchiere senza scopo, in quelle parodie d’interviste televisive, in quelle scampagnate tra amici lungo il Po ferrarese, seguendo una strada provinciale che letteralmente “non porta da nessuna parte”? Anche quando, molti anni dopo, Celati si lascerà alle spalle la pianura Padana, con le sue case in rovina e le sue strade provinciali delle anime, per esplorare le savane del Senegal in cerca di una via alternativa alla modernità euro-occidentale, qualcuno arriverà addirittura a scambiare la sua ostentata serenità contemplativa per un atteggiamento tardo-pasoliniano, eurocentrico e colonialista.

Non credo che a Celati tutto questo importasse poi granché. Anche nell’ultima fase della sua carriera, quando il documentario, prontamente ribattezzato “cinema del reale”, cominciava a raccogliere consensi e premi nei festival di tutto il mondo, lui aveva già rivolto lo sguardo altrove: per esempio, a quelle serie televisive di cui sembrava affascinarlo soprattutto il rituale del racconto seriale, più vicino al romance che al borghesissimo novel, che detestava. Chissà, forse gli sarebbe piaciuto scriverne una. Ma era già troppo tardi: la mente e le parole cominciavano a venirgli meno, fino a mancargli del tutto.
Torniamo allora a parlare di quello che ha fatto, che ci ha lasciato. Alla base del “fare” cinematografico di Celati c’era innanzitutto quella divorante passione per il grande schermo che l’aveva spinto, fin da giovane, a spendere i pochi soldi che guadagnava per recarsi non appena poteva a Parigi, alla Cinématheque Française, dove proiettavano di continuo i film dei fratelli Marx: “Ero un fanatico movie goer”, come racconterà molti anni dopo. Al cinema, e all’amata slapstick comedy, Celati aveva guardato poi per scrivere i suoi primi romanzi, apparsi fra il 1971 e il 1978; e al cinema sarebbe tornato ancora qualche anno più tardi, quando la spinta propulsiva di quei libri si era esaurita e lui aveva sentito il bisogno di riprendere fiato, reinventandosi sceneggiatore di “film falliti in partenza”, sotto la guida paziente e fraterna dell’amico Alberto Sironi.

In secondo luogo, il cinema è stato per Celati il prolungamento e al tempo stesso la verifica di un’ampia riflessione sullo sguardo e la percezione, sviluppata dapprima al fianco di Carlo Gajani (col quale aveva realizzato i fototesti Il chiodo in testa e La bottega dei mimi) e poi, per oltre un decennio, di Luigi Ghirri. “La mia idea o il mio sogno strampalato”, dirà Celati molti anni dopo, “consisterebbe nel creare un impatto con tutto ciò che chiamerei il disponibile quotidiano: tutto quello che passa davanti ai tuoi occhi o per le tue orecchie o nelle tue fantasie. Qualsiasi scena è buona, non esiste il bello o il brutto nei paesaggi, esiste solo l’affettivo e il disaffettivo”. In questo, i suoi film si collocano in una zona che non coincide esattamente con il documentario, né con il cinema di finzione: si collocano prima, in quell’altrove lontano, incerto e al tempo stesso carico di possibilità che è il cinema delle origini.

Questo ci porta al terzo e forse più importante principio che ha orientato la bussola apparentemente impazzita del Celati regista: l’incontro. Incontro con i luoghi, ovviamente, secondo il dettato zavattiniano: “Qualsiasi luogo, anche nei suoi aspetti minimi, è un’enorme riserva di cose narrabili, filmabili, fotografabili”, perché ovunque, soprattutto in quei posti che tutti considerano desolati, si può scoprire una particolare “tonalità affettiva”, si possono celare “le forze d’un desiderio che si manifesta come ricerca d’altro”. Ma soprattutto, l’incontro con gli altri. “Scrivere è un’attività solitaria. Io credo d’essermi convertito al film documentario perché è un lavoro che fai con gli altri”. Sironi, Ghirri, gli operatori Lamberto Borsetti, Paolo Muran, Guglielmo Rossi, il produttore Luca Buelli, il fonico Stefano Barnaba, il commediografo e attore Mandiaye N’Diaye, lo scrittore John Berger; e poi le trenta persone che affollano la corriera azzurra di Strada provinciale delle anime, i commensali de Il mondo di Luigi Ghirri, i passeggeri della littorina di Case sparse, gli abitanti del villaggio di Diol Kadd nel film omonimo.
L’esperienza cinematografica di Gianni Celati è una costellazione di incontri, di persone, di parole, di scambi che danno l’impressione di precedere il corpo dei film e spesso di poter proseguire al di fuori di essi. Celati si autodefiniva con orgoglio semiserio un “dilettante”, un cineasta “amatoriale”: malgrado abbia lavorato nel corso degli anni insieme a ottimi professionisti, ha sempre cercato di conservare nei suoi film quel tanto di “dilettantismo” che li rendeva unici e irripetibili: “Il fatto del parlarsi, dello stare vicini, del diventare amici”.

In un articolo pubblicato in occasione della scomparsa di Celati, l’amico ed ex allievo Enrico Palandri ha scritto che nei suoi libri “c’è qualcosa che supera anche la morte”. Penso di poter dire la stessa cosa dei suoi film, che spero vengano d’ora in poi considerati non più come una semplice derivazione dei suoi libri, quasi una sorta di “capriccio” della maturità; bensì come una componente “parallela” della sua opera letteraria, piena di quella stessa energia vitale che secondo Palandri (e io sono con lui) “tanti nuovi lettori ritroveranno ancora per svicolare, superare, saltare gli ostacoli”.
In copertina: Sopralluogo per il film “Sulle tracce di Alice”, Fontane Bianche, Siracusa 1977. Foto Mili Romano
About Author / Gabriele Gimmelli
Dottore di ricerca in Studi umanistici interculturali. Collabora con l’Università di Bergamo. Editor di «Doppiozero», scrive di cinema e di letteratura per «Blow Up» e altri periodici. Ha recentemente pubblicato il libro "Un cineasta delle riserve. Gianni Celati e il cinema" (ed. Quodlibet Studio, 2021)