Flora nel teatro di posa

Abbiamo chiesto a Martina De Polo, autrice e regista di “Flora”, di parlarci di questo documentario (in fase di lavorazione) sulla più giovane staffetta partigiana della Resistenza italiana.

Come sei venuta a conoscenza di Flora e della sua storia?

Sono stata contattata da Alex Scorza, co-autore del documentario, che aveva scoperto questa storia attraverso un laboratorio di teatro civile tenuto dalla Fraternal Compagnia, una compagnia che si occupa di commedia dell’arte e organizza laboratori in cui attori non professionisti reinterpretano e mettono in scena storie di attualità.
La Compagnia aveva trovato la storia di questa partigiana, Flora Monti, da cui hanno tratto una pièce teatrale, che hanno portato in giro in diverse occasioni a Bologna.
Massimo Macchiavelli (regista della Fraternal Compagnia) e Matteo Martini (attore della compagnia del teatro civile) ne hanno parlato con Alex, che ha trovato che fosse un soggetto perfetto per un documentario. Anche io ho pensato subito che poteva essere una buona occasione per creare qualcosa di diverso dal solito documentario storiografico.
Soprattutto nella nostra regione infatti il tema dell’antifascismo è molto sentito e quindi di documentari ne sono stati realizzati molti. Io personalmente credo che siano molto importanti e per questo li ho visti tutti. Ma noi abbiamo deciso di adottare uno sguardo storiografico inedito, quello di una bambina, e di sconvolgere l’assetto classico di un documentario, includendo un linguaggio sperimentale che attingesse a un linguaggio post-moderno: è così che la video-arte si trova a coesistere con la commedia dell’arte, creando un connubio tra arte popolare e arte colta.

Qual è in sintesi la storia di Flora?

La particolarità della storia di Flora è che è stata la più giovane staffetta partigiana della Resistenza italiana. Flora ha iniziato a militare a dodici anni nelle zone di Monterenzio: trasportava biglietti, comunicazioni, ma anche armi. Tutta la famiglia Monti era una famiglia di antifascisti: a Bologna la madre è stata una delle protagoniste dell’antifascismo di quella zona perché, soprattutto dopo l’armistizio del ’44, tutti i disertori che si univano alla lotta partigiana passavano dalla loro casa. La madre bruciava le loro divise e dava loro dei vestiti puliti, indirizzandoli verso la lotta partigiana.
Con l’acuirsi della situazione, tra le rappresaglie dei nazifascisti e i bombardamenti degli Alleati, quella zona non era più sicura, anche perché i tedeschi cercavano la famiglia Monti, in un periodo in cui le esecuzioni sommarie erano all’ordine del giorno.
Arrivano dunque gli Alleati a comunicare alla famiglia Monti che non è più sicuro stare lì, raccolgono molte famiglie e iniziano questa carovana verso il campo sfollati di Cinecittà a Roma.

Deina Palmas interpreta Flora bambina
Qual è la struttura del film?

Sostanzialmente il film è diviso in tre parti: la prima parte racconta della storia di Flora partigiana, la seconda parte racconta del viaggio surreale che la carovana di sfollati ha intrapreso fino a Roma, mentre l’ultima parte parla della vita nel campo sfollati di Cinecittà.
Considera che gli sfollati non sapevano dove stavano andando: li hanno presi a Firenze e poi sono arrivati direttamente a Roma. A quel tempo Cinecittà era il più grande campo sfollati esistente, c’erano più di quaranta nazionalità, ed era diviso tra la parte italiana e la parte internazionale. Come in tutti i campi profughi le condizioni igienico-sanitarie erano molto precarie.
Il primo ricordo di Flora all’interno del campo sono questi tendaggi di broccato, di velluto rosso, di cui dopo un paio di mesi non era rimasto più neanche un pezzettino, perché le persone ogni volta ne prendevano una parte per potersi coprire o vestire.

La storia del campo sfollati di Cinecittà non è molto conosciuta…

Si, questa di Cinecittà è una parte storiografica un po’ dimenticata, infatti abbiamo avuto difficoltà nel trovare degli storici esperti e nel fact-checking.
Nella ricerca di fonti storiche a riguardo abbiamo trovato un testo interessantissimo di una studiosa americana, ma anche un documentario molto interessante intitolato Profughi a Cinecittà, che racconta di alcuni sfollati che il regista trova e porta a Cinecittà, dando voce ai loro ricordi. Considera che Cinecittà era inizialmente utilizzata dai fascisti come campo di prigionia per dissidenti e per ebrei, poi con l’arrivo degli Alleati viene liberata e trasformata in un campo per sfollati. Ma era stata saccheggiata negli anni precedenti dai nazisti, che avevano rubato tutte le attrezzature cinematografiche facendosele spedire in Germania.

Perché hai deciso di inserire diversi linguaggi all’interno della struttura narrativa?

Ciò che a me interessava sviluppare – anche a livello di regia – era la realizzazione di un documentario storiografico che però provasse a usare un linguaggio diverso. Avendo avuto la fortuna di poter lavorare con una compagnia teatrale che è tra i massimi esponenti della commedia dell’arte in Europa e nel mondo, avevo da anni la voglia di intraprendere anche un percorso legato alla videoarte e di poter utilizzare il materiale d’archivio in maniera più creativa. Quindi l’idea non era quella di utilizzare il materiale d’archivio spurio nel montaggio, interrompendo il flusso comunicativo di Flora. La mia intenzione era realizzare un viaggio metaforico all’interno dei ricordi di una persona anziana, com’è adesso Flora, che ripercorre le esperienze vissute quando era solo una ragazzina. Durante l’intervista lei è sospesa in questo limbo nero, e alle sue spalle vediamo dei cubi luminosi posti in diverse posizioni, al cui interno scorrono sia immagini di Flora, sia immagini legate alla Resistenza di Bologna. In queste immagini figura anche Edera De Giovanni, amica di Flora e prima donna ad essere stata fucilata dai nazifascisti.
La sensazione che si ha è un po’ come se si fosse in un non-luogo, che poi è il luogo della memoria di Flora.

Un’altra particolarità della parte di fiction/ricostruzione del film è che tutti gli attori indossano delle maschere della Commedia dell’arte, caratterizzate per gruppo di appartenenza: tutti gli americani hanno la stessa tipologia di maschera, gli sfollati un’altra e i tedeschi un’altra ancora. L’unica attrice che si vede in volto dall’inizio alla fine del film è Deina Palmas – l’attrice che interpreta Flora – per permettere agli spettatori di empatizzare e identificarsi con lei.

Nei luoghi in cui abbiamo girato in esterni ci saranno altri interventi artistici: ad esempio in Piazza della Signoria a Firenze proietteremo con una tecnica simile al video mapping il materiale d’archivio mescolato al materiale d’attualità.
È sconvolgente vedere come le immagini degli sfollati del ‘44-’45 siano simili a quelle dei migranti della rotta balcanica di oggi: ci sono proprio delle vicinanze iconografiche che mi hanno suggerito di amalgamare le due cose. Si creeranno delle sovrapposizioni e si avrà un effetto straniante: lo spettatore pensa che andrà a vedere un film storiografico per poi ritrovarsi in mezzo a Piazza della Signoria con delle persone che indossano delle maschere, nessuno che parla e sullo sfondo queste immagini proiettate sugli edifici.

L’altro linguaggio che utilizziamo viene realizzato nel teatro di posa. Si tratta di proiezioni digitali che compaiono e si ampliano sui corpi degli attori, per rappresentare i sentimenti più intimi che quel personaggio sta provando.

Quali sono le realtà che hanno collaborato e sostenuto questo film?

Sono tutte realtà bolognesi, c’è la Fraternal Compagnia che ha curato tutto l’ambito artistico/teatrale, realizzando anche le maschere originali in cuoio – Luca Comastri è uno dei mascherai più bravi che si trovano in Italia -, i ragazzi di Roof, con sede al Pratello, per quanto riguarda le videoproiezioni e poi c’è Bloomik, che si occupa delle videoproiezioni e di tutta la post-produzione del film. Infine c’è Combo che è la casa di produzione.
Per quanto riguarda i finanziamenti, abbiamo ottenuto il sostegno alla produzione dell’Emilia Romagna Film Commission, poi abbiamo vinto anche il bando Cultura del Comune di Bologna e quello di Emilbanca. Inoltre abbiamo ricevuto dei finanziamenti dal Comitato per le Onoranze ai Caduti di Sabbiuno, dove abbiamo girato anche alcune scene e altri finanziamenti anche dalla Coop Reno. Abbiamo fatto anche un crowdfunding che è andato molto bene.

Qual è lo stato attuale della produzione?

Abbiamo finito le riprese e siamo in fase di post produzione, stiamo lavorando al montaggio e alle musiche. Speriamo insomma che a brevissimo il film sia pronto. Quello che stiamo cercando ora è un canale distributivo che lo valorizzi.

Quale obbiettivo vi ponete in termini di coinvolgimento del pubblico? A chi vorreste rivolgervi?

Quello che vorremmo fare è riuscire a dialogare anche con quella parte del pubblico che non è naturalmente attratto da questo tipo di prodotto audiovisivo, soprattutto i giovanissimi, e tutte le persone che non si sentono vicine a queste tematiche.
Flora è un vulcano, le prime volte che l’ho incontrata per capire se fosse il caso o meno di fare questo documentario non ho avuto dubbi: è comunicativa, coinvolgente, è una donna che dopo la guerra, per tutto il resto della sua vita, ha continuato a lottare e a scendere in piazza. Avevo bisogno però dell’aggancio empatico con il pubblico più giovane. Per questo abbiamo lavorato con Deina Palmas, che è stata bravissima, nonostante fosse alla sua prima esperienza attoriale (anzi alla fine è stata tra gli attori più professionali con cui abbia mai lavorato!).
Inizialmente l’idea era quella di intervallare il racconto di Flora con i racconti degli esperti, ma abbiamo subito notato che gli esperti che contestualizzavano geopoliticamente e storiograficamente facevano sì che il racconto perdesse di mordente.
Così abbiamo pensato ad un escamotage: eliminare la parte degli storici (tenendola come contenuto extra) e far recitare direttamente a Deina la parte storiografica di contestualizzazione. La ragazza, immersa in un limbo nero e vestita con gli indumenti che man mano indossa Flora durante il film, racconta in trenta secondi i dati storici di cui abbiamo bisogno. Facendo ciò abbiamo constatato che riuscivamo a non interrompere il flusso della narrazione e a mantenere un riferimento fra la Flora di allora e la Flora di oggi.

Cosa ci insegna oggi la storia di Flora?

Innanzitutto secondo me la storia di Flora è interessante perché la Resistenza è sempre stata declinata al maschile: quando si pensa al “partigiano” si pensa sempre al maschio, quando in realtà l’impegno delle donne è stato fondamentale per la caduta del nazifascismo.
All’inizio, subito dopo la liberazione, erano tutti partigiani e partigiane, poi si è voluto differenziare il partigiano dalla staffetta, e alle commemorazioni dovevano stare più avanti i maschi rispetto alle donne.
Quindi penso che la vicenda di Flora sia importante sia perché è una donna, sia perché era solo una ragazzina quando a 14 anni si è ritrovata a vivere la Storia da protagonista. In lei possiamo identificarci tutti, perché non è il grande eroe lontano da noi, ma una semplice ragazzina non istruita, proveniente da un paesino di montagna, che non ha mai avuto dubbi su cosa fare né da che parte stare.

Note:

Tutte le immagini a corredo dell’articolo sono di Julio Cesar De Dominicis, e sono tratte dal set di “Flora”.

In copertina: Flora Monti, staffetta partigiana protagonista del film.