My next Photograph in the Congo
Il nuovo film di Stefano Cattini, prodotto da Small Boss, è ambientato nella Repubblica Democratica del Congo, e cattura il lavoro sul campo del fotoreporter Marco Gualazzini nel Nord Kivu. Una regione di confine, addolorata dalla propria ricchezza mineraria, che apre e chiude cicli di violenza e guerre civili. A oltre ottomila kilometri di distanza, Irene Gallina, la montatrice, prova a ricomporre i frammenti del viaggio di Marco nel buio della sala di montaggio. Smarrendosi nella realtà rivelata dalle immagini, tra vaghi bagliori di bellezza e momenti di improvvisa violenza, inizia a chiedersi se sia davvero possibile capire un luogo complesso e lontano come il Congo, e cosa vediamo davvero nella fotografia di un mondo sconosciuto.

All’aeroporto di Bologna, una sera di febbraio del 2022, il regista Stefano Cattini mi consegna un hard disk. Non cerca di nascondere quanto sia felice di essere tornato. Vicino all’auto c’è Marco Gualazzini, il fotografo – l’avevo conosciuto solo come personaggio su uno schermo, nelle interviste che avevano preceduto la partenza, e come voce al telefono. La cosa più strana, ora, mi sembra sia avergli stretto la mano proprio in quel momento, per presentarci alla fine del viaggio.
Marco Gualazzini, fotoreporter parmigiano, e il giornalista Daniele Bellocchio sono legati da un sodalizio professionale che da dieci anni li vede ritornare in Congo, più precisamente in Nord Kivu, la Regione dei Grandi Laghi. Marco e Daniele hanno sempre raccontato storie dal tema ben definito: l’epidemia di Ebola, le miniere di coltan, lo stupro come arma di guerra.
Nel 2022, però, Marco ha progettato un viaggio senza contorni; vuole trovare l’insieme, uno sguardo che racconti tutto e, ancora di più, forse chiudere un capitolo della propria vita, professionale e personale. Probabilmente è anche per questo che Stefano ha scelto di seguirlo in questo viaggio e girare un documentario: per la natura inafferrabile dell’ostinazione di Marco, che conteneva già le potenzialità di una storia. “La domanda è: perché lo fa?” ma soprattutto: “perché continua a tornarci?”

La Repubblica Democratica del Congo è un paese soffocato da problemi che hanno radici grandi quanto il mondo intero: non c’è nulla che attiri l’avidità internazionale come minerali preziosi e indispensabili per l’elettronica, petrolio, oro, e la sostanziale impossibilità di proteggerli. Sono interessi che portano con sé armi, instabilità, sfruttamento; un circolo vizioso che nutre una guerra civile endemica, che si ripresenta con volti sempre nuovi all’insorgere di ogni nuovo gruppo armato (se ne contano, ad oggi, 123), e distrugge villaggi e comunità. Le regione del Nord Kivu, in particolare, sembra non trovare pace, a causa della propria ricchezza e della propria posizione, alle indifendibili frontiere con Uganda e Ruanda. Il conflitto con il gruppo armato delle ADF (Allied Democratic Forces) ha fatto sì che nel 2021 fosse istituita la legge marziale, nel tentativo di garantire la sicurezza nella regione. La popolazione, però, di fatto continua a subire massacri e il malcontento dei civili continua a crescere.

In questo contesto di difficoltà, nell’arco di una ventina di giorni, si sviluppa l’itinerario vertiginoso di Marco e la troupe. Ad accompagnarli attraverso gli infiniti ostacoli burocratici è il loro fixer (una guida locale e interprete) Akilimali Saleh, giovane e intraprendente giornalista che li aiuta a creare un percorso e ad entrare in contatto con le persone.
Il viaggio così si lega alle missioni di pattuglia del Colonnello Charles Omeonga nelle aree di Eringeti e Lume, zone in cui i soldati dell’esercito regolare delle FARDC (Forces Armées de la République Démocratique du Congo) vigilano su una popolazione sfiancata dalle incursioni dei gruppi armati. Nei campi profughi di Oicha, poi, Marco ascolta le storie dei rifugiati pigmei, costretti ad abbandonare le proprie case e perseguitati dalle ADF.
Le ADF non sono, però, l’unico problema della popolazione del Nord Kivu: l’incontro con membri dell’associazione LUCHA (Lutte pour le Changement) getta ombre sugli interventi delle FARDC e il prolungamento della legge marziale. Poco dopo, infatti, la troupe assiste alle proteste per l’abolizione della legge marziale nel quartiere popolare di Mulekere, nella città di Beni, dove la povertà e la paura esplodono spesso in episodi di manifestazioni turbolente, represse con durezza dalla polizia. Seguendo la lunga strada rossa che collega il nord e il sud della regione, fino alla città di Goma, il viaggio di Marco lo porta a visitare i luoghi in cui è avvenuto l’attentato all’ambasciatore italiano Luca Attanasio, nel febbraio del 2021, e ancora oltre, per raggiungere la città di Bukavu. Luogo dall’inesauribile fascino, intrico di vicoli e storie, che si riflette nelle acque del lago Kivu, ma, per il fotografo, luogo di attesa, mentre già punta lo sguardo verso le montagne, sapendo che il viaggio deve proseguire verso le miniere di cassiterite di Nyabibwe.

La complessità delle storie e la serratissima tabella di marcia, dovuta alla vastità del territorio che questo viaggio copre, hanno costituito il primo grande ostacolo del film, il cui superamento è diventato la nostra prima molla creativa in fase di scrittura e di montaggio: i tempi diversissimi del fotogiornalismo e del documentario, che si nutre invece di momenti dilatati, di permanenza.
Il regista voleva ad ogni costo evitare qualsiasi stereotipo e riuscire a raccontare eventi e persone in modo sincero, nonostante gli ostacoli della velocità e dello sguardo impreparato di un occidentale, che del Nord Kivu in tanta fretta non può cogliere che impressioni superficiali. Stefano ha avuto un’intuizione, quindi. Ha immaginato il narratore del suo film: una voce che fosse all’interno alla vicenda, ma che incarnasse l’alienazione provata e ogni ingenuità; che agisse con naturalezza all’interno dei limiti imposti dalle condizioni reali, ma riuscisse a sconfiggerne uno, il più grande – il non potersi mai fermare abbastanza a lungo. Una voce che vedesse poco, quindi, ma quel poco potesse vederlo per sempre, fino a familiarizzarci e cominciare a capirlo, il Nord Kivu, le ragioni di Marco.
Quel narratore ideale sembrava coincidere perfettamente con una figura reale, un mestiere, più che una persona: il montatore. In un grande atto di fiducia, perciò, ha lasciato a me le parole, guidando il percorso della narrazione per raccontare in maniera indiretta anche la propria esperienza. Il punto di vista della voce narrante, quindi, è quello di un osservatore esterno, che in Nord Kivu non ha mai messo piede. Un osservatore diventato personaggio. La voce narrante, con un approccio di onestà totale, dichiara immediatamente la propria ignoranza e il desiderio di comprendere – l’unico modo forse per riuscire ad avvicinarsi ai due protagonisti del film: il Nord Kivu e Marco.

Marco nella sua missione si muove senza esitazioni e inizialmente diventa l’unica guida possibile per la voce narrante. Supera con decisione gli ostacoli burocratici, non si lascia intimidire dall’ostilità aperta di molti congolesi, che guardano gli stranieri con sospetto, soprattutto se fotografano o riprendono. Guida la voce narrante verso storie di umanità, a volte intime, a volte spiazzanti, e circostanze dolorose.
Si crea così un rapporto a senso unico: Marco, senza saperlo, spiega il Nord Kivu e insegna un lessico personale, che la voce narrante fa proprio: “aprire le porte”, che significa per Marco raggiungere il cuore di una situazione, parlare con le persone. “In punta di piedi”, che significa delicatezza, empatia. “Guardarsi allo specchio”, ovvero riflettere sulle implicazioni etiche di un fotografo occidentale in Africa. Marco si fa inconsapevolmente interprete e, a ogni domanda, la voce narrante cerca in lui le risposte.
Nel liberatorio atto di abbandonare l’orgoglio e ammettere il proprio spaesamento, la voce narrante fa esperienza di ogni incontro umano, senza rimuovere elementi di contraddizione e gli imprevisti della realtà, ma cercando un punto di contatto. Può cercare di imparare lo swahili sentendo le persone raccontare la propria storia, e capire che nessuna parola è pronunciata con tanta forza quanto la parola “amani” (pace). Può cercare di fermare il tempo e leggere le insegne dei negozi attraverso il vetro del finestrino. Può cercare di concentrarsi su persone intraviste per un istante, non lasciare che si perdano nella vastità della storia che Marco cerca di catturare.

C’è un soldato che pattuglia le strade dell’ultimo villaggio sicuro, prima del fronte di guerra – sulla camionetta militare, quando il vento prende forza, comincia a piangere. C’è un uomo che aspetta davanti all’obitorio, forse è folle e non si dispera, vuole farci leggere un passaggio degli Atti degli Apostoli. C’è un signore in motorino, non ha soldi per il carburante, e solo per far ridere i bambini urla, “Con questa foto finiamo a Parigi!”. C’è un paese vicino alla miniera, avvolto dalle nuvole, per le cui strade rimbombano la colonna sonora di un film americano e i colpi di mannaia di un macellaio. C’è una bambina che ha visto massacri, e alle domande del giornalista straniero risponde con un sorriso adulto, triste e ironico, perché quello che ha visto non ha risposta.
Il ruolo esplicitamente tecnico del narratore permette anche questo: cambiare linguaggio visivo per tentare di guardare oltre le limitazioni; se vogliamo capire la storia di Marco, le riprese non bastano, e bisogna tornare all’archivio dei suoi viaggi precedenti; se vogliamo vedere il Nord Kivu, a volte le riprese non sono sufficienti, e bisognerà guardare le vicende attraverso le riprese al cellulare dei congolesi stessi, per scoprire che la realtà che la troupe non ha potuto raggiungere è ancora più complessa, brutale, umana. Se il viaggio di Marco volge al termine, per vederlo tornare in Italia, atterrare a Bologna, dove ci stringeremo la mano, l’ultima scena del film prosegue senza di lui, nelle riprese di un luogo che non è mai riuscito a raggiungere.





Note
Tutte le immagini presenti nell’articolo sono tratte dal documentario My next Photograph in the Congo di Stefano Cattini, produzione Small Boss, attualmente in fase di postproduzione.
About Author / Irene Gallina
Montatrice e ricercatrice d'archivio. 'My next Photograph in the Congo" è il primo lungometraggio da lei montato.