La città di Fellini
Silvia Giulietti è produttrice indipendente, regista, direttrice della fotografia. Nel suo documentario “Fellinopolis” recupera i preziosi materiali di archivio del regista Ferruccio Castronuovo per raccontare la “città di Fellini”, il mitico Studio 5 di Cinecittà. Le abbiamo chiesto di parlarci del suo lavoro di documentarista. E, soprattutto, del suo ritratto del grande regista riminese.

Qual è il tema centrale del tuo lavoro di documentarista?
Mi sono focalizzata molto sul documentario sul cinema, raccontando i grandi maestri non tanto sotto l’aspetto biografico quanto sotto l’aspetto umano, il rapporto che hanno avuto con i loro collaboratori. I grandi registi visti da dietro la macchina da presa. Io sono stata operatrice e direttore della fotografia per tanto tempo, ho lavorato 25 anni nel gruppo degli operatori di Visconti, il mio maestro è stato il grande direttore della fotografia Armando Nannuzzi. Quindi conosco perfettamente il meccanismo che si muove dietro la macchina da presa. Tutti questi anni di osservazione “sul campo” mi hanno portato a fare una sintesi “umana” dei personaggi. Nei miei documentari io racconto questo. Ho raccontato personaggi come Visconti, Montaldo e Monicelli. E oggi Fellini.

Come hai trovato questi preziosi archivi?
Il 2020 è stato il centenario della nascita di Fellini. Io conoscevo già Ferruccio Castronuovo, il regista che ha seguito Fellini nei suoi set, da Casanova in poi. Castronuovo era l’unico regista ammesso a girare sul set di Fellini. Al tempo si facevano gli special, che erano dei veri e propri film, duravano un’ora e servivano a pubblicizzare il film all’uscita. Quelli che oggi si chiamerebbero backstage, ma sono molto più corti. Ferruccio aveva questo archivio incredibile di cui deteneva i diritti, e lo aveva tenuto nel cassetto per 40 anni. Io gli ho detto: “Ferruccio, è arrivato il momento, o ora o mai più!”. Così ho acquisito l’archivio, lo abbiamo digitalizzato interamente e il progetto è iniziato. Ho cominciato a girare delle interviste ai collaboratori di Fellini, quelli che avevano vinto dei premi Oscar, come Lina Wertmuller, Dante Ferretti, Nicola Piovani, il costumista Maurizio Millenotti, ma anche la sua segretaria di edizione, e così via. Ho raccontato il dietro le quinte, qualcosa che non si era mai visto prima, ed è stata l’occasione per mostrare al grande pubblico questi meravigliosi archivi.
Qual è stata la difficoltà nel lavorare con questa immensa mole di materiale?
Direi che la difficoltà maggiore è stata proprio trovare il filo conduttore, perché ogni film di Ferruccio aveva la sua narrazione, e io ne avevo un’altra. Lui raccontava il modo in cui Fellini costruiva i suoi film. Io invece volevo raccontare la città di Federico Fellini dentro Cinecittà, Fellinopolis appunto. Quindi ho lavorato molto sulla creazione di una mia linea autoriale, su dei film che avevano già una loro linea autoriale precedente.
Quale criterio narrativo hai seguito nel fare il montaggio?
Ho seguito il mio filo conduttore: raccontare il mondo di Fellini dentro Cinecittà, che come è noto è già una città a parte. Ma quella di Fellini era una città a parte dentro la città di Cinecittà! E’ famoso il fatto che Fellini praticamente viveva lì dentro. Aveva un appartamento, aveva una cuoca, stava lì anche il sabato, la domenica, scriveva lì. Era come casa sua. Nel film cito una sua frase molto significativa:
“Quando mi chiedono ‘dove vorrebbe vivere? a Londra, a Roma, a New York?’ Io rispondo: veramente vorrei vivere qui, a Cinecittà.”

E così hai dato spazio alle voci dei collaboratori di Fellini…
In questo film ho voluto raccontare la vita di tutti coloro che hanno lavorato per Fellini e sono stati in un certo senso “fulminati” da lui. È strano a dirsi, ma tutte queste persone hanno avuto una specie di “corto circuito cerebrale”, per cui Fellini è diventato il loro faro, e tutto il resto della loro vita ha continuato a girare intorno a Fellini. Quindi io mi sono sempre chiesta qual era il suo segreto… perché lui creava questo tipo di relazione, e non gli altri registi? E mi sono data una risposta: perché lui aveva una capacità incredibile di imbastire dei rapporti umani. Un esempio: tutti quelli che ho intervistato, dall’attrezzista al direttore della fotografia, hanno detto: “Io con Fellini avevo un rapporto speciale, il rapporto che lui aveva con me non ce l’aveva con nessun altro.” Tutti avevano questa sensazione. Lui faceva così, anche col portiere di casa, era proprio un suo modus operandi. Era un uomo intelligentissimo, straordinario. E dai suoi film si vede proprio la grande partecipazione, il grande entusiasmo di chi lavora sul set, fino all’ultimo macchinista. Quando vedi quelle scene del treno, del mare… Glielo vedi stampato in faccia, che quello che stanno facendo in quel momento li gratifica. Sono consapevoli del fatto di partecipare a qualcosa che passerà alla storia.

Tra le tante interviste quale ti ha colpito di più?
Ognuno degli intervistati racconta un suo mondo. Nella mia esperienza, lavorando tanti anni sul set, ho capito che la percezione di quello che accade sul set è determinata dalla distanza dall’azione. Gli operatori hanno una sensazione, perché sono vicini all’azione. Gli attori hanno un’altra sensazione perché sono dentro l’azione. Il costumista, lo scenografo hanno un’altra sensazione perché operano nel contorno. E ognuno degli intervistati racconta cose diverse, tutte straordinarie. Come ad esempio Lina Wertmuller, che mi ha parlato del suo lavoro di aiuto regista di Fellini. E Dante Ferretti, che nella sua grandezza mi ha dato un’intervista di una semplicità commovente. Un uomo di quella levatura che si dà, che si racconta così, semplicemente, è davvero notevole.
In cosa si differenzia il tuo documentario rispetto ad altri lavori che raccontano Fellini?
In questo anniversario sono usciti moltissimi documentari. Io ovviamente li ho visti quasi tutti e ognuno racconta uno spaccato diverso, non si sovrappongono l’uno all’altro. Questo ci dimostra quanto Fellini sia infinito. C’è chi ha raccontato il profilo giornalistico, chi ha raccontato il profilo biografico. Io invece ho approfondito proprio il rapporto umano. Questa come ti dicevo è la mia linea autoriale, anche nella mia produzione precedente. Ciò che rende grandi questi registi, al di là della tecnica.

Nel tuo documentario ci sono sequenze stupende in cui si svelano i segreti delle scenografie…
Lì è il grande genio di Dante Ferretti… Il movimento del mare… Qualcuno chiese a Fellini “Ma perché lei ricostruisce il mare in studio? Non è più facile andare a girare al mare, dal vero? E lui rispose: “Sì, ma hai mai provato a dire al mare: muoviti! ricomincia! stop!” Per fare la scenografia del mare c’erano le fabbriche dove si costruivano tutti i giunti, gli snodi del movimento, delle manovre. Poi sopra andavano quelli che mettevano i teli, poi c’erano gli attrezzisti che mettevano il sale… Perché il sale grosso, quando lo metti in controluce brilla! Ed è esattamente lo stesso effetto che fa il mare dal vero. Quindi tu immagina: la costruzione del mare era veramente un concerto fra scenografia, arredamento, attrezzeria, fotografia, operatori. E questi macchinisti che girano le manovelle… Sembrano dei gondolieri, dei rematori nelle navi antiche… Era veramente un lavoro artigianale, ma su grande scala. Oggi metti un green screen e finisce lì…

Perché hai scelto di fare documentari?
Mia nonna, nata nel 1890, era fotografa, aveva il banco ottico, andava in giro con il Sidecar, e si sviluppava le foto da sola. Mio padre, da piccolino, la aiutava nella camera oscura, con le bacinelle di legno, in soffitta… Durante la Seconda Guerra Mondiale mio padre è stato fatto prigioniero dai tedeschi. Si è salvato proprio perché a un certo punto un tedesco disse: “C’è qualcuno che sa sviluppare le fotografie?” Così lo misero a lavorare nel laboratorio di sviluppo e stampa delle rilevazioni aeree. Una notte c’è stato un bombardamento, lui è scappato e si è salvato la vita. Quando avevo 12 anni mi ha regalato la sua macchina fotografica, una di quelle con il soffietto, e mi insegnò a fare la fotografia… Quindi come vedi questa mia passione era un destino, ce l’avevo proprio nel DNA.

Cosa ti affascina dei grandi personaggi?
Ci sono delle figure che lasciano un segno. Io mi chiedo: “Questo segno che cos’è?” Non è che Fellini ti insegni a fare il regista. In parte sì, però fondamentalmente ti tocca ad un livello umano. Le grandi personalità e le persone carismatiche che cosa hanno in più rispetto agli altri? La maggior parte dei registi del mondo, da Scorsese in poi, dicono tutti che hanno deciso di fare i registi dopo aver visto Otto e mezzo. Cosa è successo nel loro cervello? Mi piace raccontare l’influenza che i grandi personaggi hanno sul collettivo e sulla vita personale degli altri. Io lo trovo affascinante, per me è un insegnamento di vita.
“Fellinopolis” è stato proiettato anche al Cinema Fulgor di Rimini. Come è andata?
È stata un’emozione incredibile. Perché il Cinema Fulgor è il cinema storico di Fellini, rappresentato anche nei suoi film, e restaurato da Dante Ferretti! Ti puoi immaginare: a Rimini, dove tutti i cuori battono per Fellini, la nostra proiezione è stata come un atto d’amore. Il più grande successo per me è stata la presenza di tanti giovani, che sono stati come dire, folgorati. Fellini parla un linguaggio che oggi i giovani possono capire perfettamente, e ne rimangono affascinati. Questa è la magia: quando i giovani escono dalla sala e dicono: “Voglio fare il cinema!”

In copertina: Fotogramma estratto dal film “Fellinopolis”
About Author / Elisa Mereghetti
Regista documentarista, è tra i fondatori di Ethnos.