Un dialogo con il documentarista Lorenzo Stanzani sul difficile compito di raccontare la storia, in tutte le sue sfaccettature.

Fotogramma tratto da "1944: Silenzio su Monte Sole"
Hai fatto tanti lavori che hanno a che fare con la memoria di fatti storici, in particolare in Emilia-Romagna. Perché hai deciso di focalizzarti su queste tematiche?

In realtà è stato tutto, come spesso avviene, abbastanza casuale: a vent’anni mi sono trasferito a Roma, perché volevo fare del cinema, poi ho visto che lavorare nel cinema non era poi così divertente come pensavo. Sono capitato in una società, la Road Television, che si occupava di documentari. Loro avevano una grande passione per la storia, e per loro ho iniziato a lavorare come montatore di documentari storici. Collaboravamo molto con Michele Santoro e Giovanni Minoli, per cui ho cominciato a lavorare a “La storia siamo noi”, programma per cui ho montato dagli otto ai dodici documentari storici all’anno. Inizialmente non ero un grande appassionato di storia, però ho sempre avuto la passione di capire, di indagare a fondo.

Possiamo dire che sei molto curioso?

Sì, sono molto curioso! Ho bisogno di sprofondare, di immergermi fino al collo per comprendere. E così ho iniziato a fare tanti documentari storici. Però c’è anche un altro fatto significativo, che mi ha segnato: mia nonna era fascista. Lei viveva in Appennino, e nel dopoguerra era stata rasata dai partigiani. Però a me non aveva mai raccontato nulla, l’ho saputo da qualche sua vecchia amica.
Un giorno eravamo davanti al forno dove si faceva il pane, di fronte a casa sua, a Savignano sopra Riola di Vergato, e le dissi “Dai nonna, non mi racconti mai niente!”. Lei mi disse: “Sentum mo’: la sira prima eran tot niger, al maten dop aieran tot ros. Te capé?” (“Senti un po’: la sera prima erano tutti neri, e il mattino dopo erano tutti rossi. Hai capito?”)
Non ho mai preso quello che lei m’ha detto come la verità, però era la sua verità, il suo punto di vista. E questo mi ha fatto pensare molto. Facendo documentari sulla storia, ho pensato che forse avrei potuto aiutare qualcuno ignorante come me, che non sa niente dei fatti, a conoscere e a capire. Quindi ho iniziato a approfondire molto, in certi casi ho anche esagerato forse, perché per alcuni documentari sono stato anche due anni a studiare tutta la letteratura disponibile. C’era questa mia volontà di capire a fondo, per poi fare una sintesi, mantenendo però tutta la complessità che la tematica sottende.

Stele commemorativa della strage di Monte Sole
Cosa mi dici del tuo ultimo lavoro, “Il Biennio nero”?

Il Biennio nero non è un vero e proprio documentario, è una cosa diversa, una sorta di esperimento a cui pensavo da quando sono tornato a Bologna – quindi almeno da dieci anni – che consiste nel raccontare la storia attraverso giovani ragazzi e ragazze. Perché? Perché molto spesso noi adulti diamo per scontate le cose e crediamo di saperle, ma in realtà la maggior parte di noi non sa niente.
Quando parlavo con i ragazzi più giovani mi facevano sempre domande che apparentemente sembravano ingenue, ma che in realtà erano le vere domande secondo me, perché i ragazzi si pongono ancora delle questioni etiche e morali che noi non ci poniamo più. Il Biennio nero è questo, l’idea di realizzare un lavoro pensato per i giovani, per i ragazzi, per le scuole, ma che ha il pregio di parlare molto anche agli adulti.

Per quanto riguarda “Forgotten Front”?

Quando con Paolo Soglia abbiamo iniziato a lavorare su questo progetto le idee di base erano due: quella di raccontare una storia di giovani, e quella di far riflettere sul fatto che, in quel momento storico, durante la Resistenza, nessuno sapeva cosa poi sarebbe successo. Perché noi questa cosa la diamo sempre per scontata, che abbiamo vinto la guerra, che i partigiani erano i buoni… ma in realtà in quel momento non era così! Nessuno sapeva cosa stesse facendo e per cosa stesse combattendo, perché, in quel momento, per quei giovani, la libertà e la democrazia erano cose solo immaginate. E una lotta di Resistenza non l’aveva mai fatta nessuno di loro.
Per cui l’idea era quella di raccontare attraverso un’importante ricerca negli archivi, dando il senso vivo della cronaca, come se quei fatti stessero accadendo ora, e tu non sai cosa può succedere dopo. Questo è l’esperimento narrativo e interpretativo che sta alla base di Forgotten Front.

I resti del borgo di Caprara di Sopra, uno dei luoghi della strage
Il testimone Ferruccio Laffi in una scena di "1944: Silenzio su Monte Sole"
Invece che approccio hai usato per 1944: Silenzio su Monte Sole?

L’idea che sta alla base di questo documentario è la stratificazione delle memorie: mi incuriosiva il fatto che le memorie erano molto divisive, c’erano molti racconti diversi sulla strage di Monte Sole. Ho pensato di fare un documentario su come si costruisce la memoria. Ho iniziato a leggere un sacco di testimonianze e a vedere molti filmati e interviste, anche delle stesse persone in anni diversi. E mi sono accorto che la stragrande maggioranza delle testimonianze, soprattutto quelle più accese, cambiavano nel corso degli anni. In un certo senso è normale che sia così: una persona vive una determinata esperienza e dieci anni dopo si trova in un altro momento storico, per cui dà una chiave di lettura diversa di quel fatto, consciamente, inconsciamente e politicamente. Anche solo perché la sua memoria cambia, e il ricordo si trasforma.
Poi però ho trovato tre persone che negli anni non avevano mai cambiato il loro racconto e quando parlavano raccontavano di cronaca. Non c’era nessun giudizio da parte loro nei confronti di chi aveva agito, né nei confronti del loro dolore. Nel frattempo era uscito il libro di Pezzino e Baldissara “Strage su Monte Sole”, il primo libro storico su quei fatti, in cui si affronta il discorso del rapporto tra i civili e la guerra totale, che coinvolge tutta la popolazione, non solo i soldati. E dall’altro lato c’è l’ideologia che nasce dal colonialismo di un “noi” contrapposto a un “loro”. Così ho deciso di combinare questi tre livelli: la semplice e sincera testimonianza di alcune persone, il discorso sui civili che si ritrovano a combattere nelle guerre, e quello sempre attuale della contrapposizione tra “noi” e “loro”. Una contrapposizione che, grazie all’avanzamento tecnologico, consente oggi di combattere guerre con un livello di crudeltà senza pari.

Ci sono due cose nella retorica su Monte Sole che non mi andavano giù: da un lato si dice sempre che quelli che hanno compiuto la strage non sono degli umani ma delle bestie, e poi i racconti sono sempre caratterizzati da quella che io definisco “pornografia del terrore”, in cui vengono ricordate sempre le scene più atroci e cruente. Non lo condivido, perché alzare così tanto il livello significa allontanarlo da sé. Io invece facevo notare, provocatoriamente, come in realtà anche gli stragisti fossero esseri umani. 

È un discorso molto interessante, che ricorda anche l’analisi di Hannah Arendt ne “La banalità del male”. A chi è rivolto il tuo messaggio?

Quando faccio un lavoro penso a tutti e a tutte, non a qualcuno in particolare, ma la mia speranza è sempre quella di colpire anche i giovani uomini e le giovani donne. Per giovani intendo i giovani adulti, diciamo tra i venti, venticinque e i quarant’anni, quando ancora puoi cambiare, ma sei già abbastanza maturo e abbastanza “corrotto” da capire che puoi ancora cambiare qualcosa.

Proiezione "The Forgotten Front" in Piazza Maggiore, Bologna
Lavorare su più livelli di complessità sembra essere la tua cifra stilistica. Come descriveresti il tuo approccio al documentario storico?

La mia speranza è sempre quella di far sì che attraverso i fatti storici la gente possa riconoscersi, con le proprie fragilità e le proprie cattiverie, e capire che quella storia lì si ripete perché ancora oggi siamo fatti così.
Una guerra non scoppia solo perché un primo ministro decide di fare la guerra, ma perché c’è un humus sotto che cova. Per cui ognuno di noi, anche se infinitamente piccolo, è chiamato a far parte della storia. Poi, come diceva Gaber, “non è che posso fare tutto io”, ci mancherebbe, però secondo me ognuno deve fare il suo pezzetto.
Oggi secondo me il tema più forte in assoluto è proprio quello della non-violenza, che comprende anche il femminismo e il fatto di vivere in maniera nuova la genitorialità. Una volta una ragazzina di 13 anni mi chiese: “Ma lei, se avesse vissuto in quell’epoca, avrebbe fatto il fascista o il partigiano?” e io risposi: “Non lo so. Non lo so perché non sono di quell’epoca, non ho vissuto quel momento. La domanda che io mi faccio è un’altra: io oggi cosa scelgo in ogni mia relazione?”.

Pensi che il tuo lavoro contribuisca alla costruzione di una cultura della pace?

Sì, almeno la mia ambizione è questa. Pace, libertà e diritti sono i fondamenti alla base di ogni mio lavoro. A me non interessa dire che il fascista era cattivo, ma perché era cattivo. Voglio anche provare a rispondere a domande come: “Perché gli altri non si sono accorti che era cattivo?”, “Che cosa impediva loro di accorgersene?” e “Chi ha visto e poteva agire, perché non ne ha avuto la forza?”. La verità è che sbagliando s’impara ed è questa la fortuna che abbiamo: considerare ogni errore come un’opportunità di comprensione.

Lorenzo Stanzani, il testimone Ferruccio Laffi e il produttore Mauro Bartoli
Dopo aver lavorato tanto sulla storia non ti viene mai voglia di lavorare sul presente, sull’attualità?

Sì, e l’ho fatto anche, con delle inchieste insieme ad Alberto Nerazzini. Il problema è che oggi in Italia non ci sono editori. Dieci anni fa volevo fare un documentario sulla violenza di genere, e giravo gli studi televisivi per portare le mie proposte. Tutti mi chiedevano documentari in stile “lacrime e sangue”, mentre io volevo fare un documentario che facesse capire ai maschi come me – e anche alle donne – qual è il nostro problema e perché è un problema. Spesso ci si sofferma sui gesti più estremi e quindi è facile che un uomo dica: “Ma io non sono così”, come si diceva prima a proposito dei nazisti. È importante invece sottolineare come la violenza si compia anche senza uno schiaffo, anche nelle piccole cose.
A volte con mio figlio litighiamo e lui dapprima minimizza l’accaduto, vuole solo che il litigio passi, poi però troviamo il modo di parlare delle nostre emozioni e di fare la pace.
Rompere e cucire. È impossibile non rompere, non strappare nelle relazioni, ma la cosa importante è imparare a ricucire. D’altronde la parola pace vuol dire “legame”, come due fili che s’annodano, per ricucire appunto.

In copertina: Proiezione di The Forgotten Front in piazza del Nettuno a Bologna.