I caratteristici mattoni rossi dei muri di Bologna sembrano tracciare i contorni di una città magicamente ferma al suo medioevo. Nonostante le apparenze, Bologna continua a evolversi e a espandersi, inglobando nel suo tessuto urbano i terreni incolti e i piccoli borghi limitrofi con un ritmo di sviluppo incessante e frenetico. Questa fame di suolo inarrestabile ha per molto tempo invece risparmiato alcune aree dismesse al suo interno: ex fabbriche, strutture industriali e ferroviarie, aree militari che oggi segnano ettari ed ettari di terreno inutilizzati, spaccando l’opinione pubblica tra chi le vive come aree di degrado e chi le coglie come un’occasione di progettazione per nuovi servizi e zone condivise, auspicando un rinnovato senso di comunità. Le aree ex militari – diciannove in tutto il tessuto urbano del capoluogo emiliano – in particolar modo, sono forse i vuoti che più di tutti hanno destato interessi e preoccupazioni, stimolando un confronto vivo e non sempre pacifico tra cittadini e Amministrazione pubblica. E, tra queste, l’area della ex Caserma Sani che insiste per più di 105.000 metri quadrati in uno dei quartieri più densamente popolati di Bologna qual è il Navile, è stato l’oggetto di indagine del progetto Osmotic Pressures | Forme Atipiche di Relazione Urbane, da me curato qualche anno fa insieme ad Anna Maria Tina, artista visiva, e realizzato in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti e lo stesso Quartiere Navile. Era la primavera del 2017, entravamo in quell’area per la prima volta dopo due anni di attese e tentativi. Era un momento complesso e delicato per la ex Sani, per la quale si intravedeva un possibile intervento di riqualifica e di apertura dell’area ai cittadini (il piano operativo comunale “Rigenerazione patrimoni pubblici”, del 2016).

Golzar Sanganian, Golnaz Mohammad, Senza titolo, 2017

Sei anni più tardi, mentre si avvicinano a conclusione i lavori di riqualifica dell’area limitrofa delle ex Officine Casaralta e, in generale, l’intera città è oggetto di un più ampio progetto di rigenerazione urbana, il risanamento dell’area dell’ex Caserma Sani annaspa tra lungaggini burocratiche e ripensamenti. Ciò che caratterizza la ex Sani a tutt’oggi resta quel muro di mattoni rossi e filo spinato che continua a tracciare una divisione decisa tra “dentro” e “fuori”. Confrontandoci con un gruppo di sedici giovani artisti, allora tutti studenti dell’Accademia di Belle Arti, Osmotic Pressures ha voluto raccontare le storie di vita che si sono mosse proprio su quel limite invalicabile tra “dentro” e “fuori”, optando per una narrazione che ha incrociato e unito passato e presente dell’area. Dopo mesi di studi, approfondimenti e sopralluoghi, il progetto ha preso vita in un percorso di interventi site-specific e azioni performative lungo il muro esterno della caserma che insiste su via Ferrarese.

Alena Tonelli, "Blow up", 2017

Interventi transitori ed effimeri che hanno però lasciato un piccolo segno nella memoria di chi ha vissuto quei momenti.

Tra questi, c’è stato il lavoro di Alena Tonelli che, ispirata dall’incontro di tennis con cui si conclude il capolavoro di Michelangelo Antonioni, Blow Up, ha ideato un’azione performativa mimando una partita di pallavolo tra due squadre, una reale e l’altra immaginata. La rete del campo da gioco coincideva con il muro della ex Caserma. La squadra nella metà di campo al di qua della rete – l’unica realmente in gioco – era formata da performer volontari e da gente che decideva spontaneamente di prendervi parte, di fare “comunità” in un’azione condivisa e coordinata da Tonelli.

Alessandro Pastore ha utilizzato la recinzione della Caserma per installare un intervento di poster art che ha “sfondato” la parete di mattoni rossi, aprendo la visione dei passanti a quello che c’era oltre il recinto.

Anche Golzar Sanganian e Golnaz Mohammad hanno voluto connettere dentro e fuori installando sul muro di recinzione una scultura in metallo, un piccolo parallelepipedo, e invitando i passanti a guardare al suo interno: come una sorta di occhio magico digitale, il monitor al suo interno permetteva di “sbirciare” in una delle abitazioni private della caserma, riconoscere gli spazi del quotidiano.

Sopralluoghi alla caserma Sani, foto Mili Romano

Letizia Goldone ha invece scelto di raccontare un’altra parte di questa storia, legata alle occupazioni abusive di cui la caserma è stata più volte oggetto: un lettore mp3, allestito all’ingresso della ex Sani all’interno di un mattone in argilla, permetteva di ascoltare il racconto di un giovane tunisino che per mesi aveva trovato riparo in uno di quei tanti edifici abbandonati.

Interessante è stata anche l’azione di ribaltamento messa in atto da Ao Qian, Chien Limu e Jiang Guoyi: i tre hanno vissuto un giorno con una delle famiglie del quartiere e hanno raccontato in un’opera video la loro quotidianità intrecciandola con le storie raccolte all’intero della ex Sani. Anna Maria Tina ha chiuso questo percorso presentando l’opera Aprire con cura: la sua è stata un’indagine fotografica sui segni lasciati sulla carta da parti parati dagli oggetti di uso comune non più presenti nelle abitazioni dei militari, segni che rappresentano una delicata e intensa analisi sul senso di “casa” e sulla vita famigliare che vi si condivideva.

Sopralluoghi alla caserma Sani, foto Mili Romano

Ai margini di questo racconto resta solo un’evidenza: le aree militari sono stati state enclave di storie e di comunità oltre quei muri di mattoni rossi che presto saranno abbattuti per fare spazio a nuovi condomini e nuove abitazioni. Le forme di convivenza cambiano, il senso di appartenenza a un luogo rimarrà forse l’unico elemento ancora in essere e in continuità con il suo passato.

In copertina: Alessandro Pastore, “Atlante Casaralta”, 2017.