Gianni Celati, o della costruzione di stati d’amicizia
Voglio ricordare Gianni con qualche immagine e qualche traccia dei tanti momenti vissuti insieme, che continuano a saltare fuori da cassetti e scatole. Un’amicizia lunga quasi tutta la mia vita, dai vent’anni. Un’amicizia contagiosa e germinativa nel nutrire stati affettivi, nel condividere passioni e nel suscitarle, per autori, libri, film, luoghi e musiche. Nel coinvolgere in progetti sempre nuovi e nell’educare al respiro per una lettura ad alta voce, allo sguardo e all’ascolto degli altri e del mondo.
Un suo corso sulla città moderna, fatto al DAMS nell’anno accademico 1977/78 – io sua assistente “apprendista” – ha segnato profondamente il mio successivo insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Bologna e anche la sorte dei miei studenti che nel corso degli anni, in grande maggioranza, nel vastissimo programma sceglievano e si entusiasmavano per i suoi libri e i suoi film, per lui, il più “gettonato” insieme a Dostoevskij e Baudelaire.
Un maestro, che non amava esser considerato tale.
Gabriele Gimmelli, autore della bella monografia sull’esperienza cinematografica di Gianni Celati Cineasta delle riserve (Quodlibet 2021), lo ha introdotto storicamente e criticamente. E Marco Belpoliti, nel libro Pianura. La pianura è un mondo (Einaudi), uscito sempre lo scorso anno, legge in Celati e in Luigi Ghirri, con altri scrittori, poeti e artisti, gli spiriti guida delle stagioni in divenire della recente cultura emiliano-romagnola.

Tracce
Un breve racconto qui è riportato in immagine proprio come da Gianni mi è arrivato. Me lo aveva scritto per accompagnare, in una mia mostra del 1994, degli acquerelli in cui appariva un omino che corre, con sottobraccio una scaletta a pioli. Quell’omino in fuga gli piaceva molto. Probabilmente lo sentiva fratello dei tanti personaggi letterari che tanto amava: Franz Tunda in Fuga senza fine di Joseph Roth, Wakefield, Bartleby, Flitcraft, in quei racconti che già negli anni ’80 ricorrevano in letture ad alta voce e che avrebbe molti anni dopo raccolto, traducendoli, insieme a Daniele Benati, in Storie di solitari americani. Vite laconiche, “evasi dalla vita” e dal proprio destino, in fuga da se stessi, come il suo Baratto (in Quattro novelle sulle apparenze) semplici e “aderenti alla propria caduta”.
Un giorno, in una lettera del 16 aprile 1996, lesse quell’omino che fugge come un“ ritornello ossessivo e fuga dalla Signora Morte, una Morte figurata, come nelle Operette Morali di Leopardi, nel Dialogo della Morte con la Moda”. Quell’omino ci ha accompagnato fino all’esperienza comune, dal 2001, della rivista online Zibaldoni e altre meraviglie di cui è diventato logo e filo di unione dei pensieri.

In una foto si vede un frammento con una descrizione di paesaggio, da una cartolina che mi aveva mandato nel 1983 e che mi son divertita a fotografare attraverso una lente d’ingrandimento. Lo sguardo attento al paesaggio ormai era diventato preponderante. Era stato una via d’uscita dopo un lungo silenzio, grazie a Luigi Ghirri e ai fotografi che aveva affiancato nel Viaggio in Italia e nelle esplorazioni del paesaggio italiano in cambiamento. Il ritrovarsi, taccuino alla mano, a descriverlo percorrendolo “a forza di gambe”, lo aveva riportato a dare un senso diverso alla sua scrittura. E a guardare al paesaggio, senza interpretarlo, aprendosi alle sue rivelazioni. Le cose sono là che navigano nella luce – scrive in Verso la foce – escono dal vuoto per aver luogo ai nostri occhi. Noi siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che fossimo qui proprio per questo. Il mondo esterno ha bisogno che lo osserviamo e raccontiamo, per avere esistenza. E quando un uomo muore porta con sé le apparizioni venute a lui fin dall’infanzia, lasciando gli altri a fiutare il buco dove ogni cosa scompare.
Un libro-esperienza sul viaggiare in due – occhio del disegnatore e penna dello scrittore – che lo aveva segnato e di cui parlava sempre durante il nostro corso era Viaggio a Londra di Gustav Doré e Blanchard Jerrold.

Qualche anno più tardi, nella lettera inviata a tanti amici, con la quale ci invitava a partecipare al progetto della rivista “Astolfo”, ritorna fra le dichiarazioni di intenti il disfarsi di ogni psicologismo o impegno sociale o ego in posizione di centralità per un progressivo esercizio di osservazione: “Attenzione alle cose esterne, descrizione delle cose del mondo, come si abita nei vari luoghi, i modi dello stare e dell’andare. Questioni di architettura, d’ambiente, di lavoro, di migrazioni e d’adattabilità.
…Descrizione del banale dove tutto comincia.
…Spezzoni di cose prese di qua e di là.
…Il problema è dappertutto lo stesso: bisogna imparare a parlare in un altro modo di queste cose…Non si tratta di un lavoro per farsi spazio, ma di fare spazio alle correnti d’aria per non restare soffocati…. Ritrovare il senso di certe discipline (filosofia, antropologia, retorica, studio della visione)…Far sentire la necessità elementare che dà senso alle narrazioni, ognuno parli soprattutto delle cose che ama e che vorrebbe che altri leggessero e senza l’atteggiamento di chi esercita un potere sugli altri.
Insieme alle recensioni di libri, film, quadri ecc. vorremmo fare recensioni di luoghi. L’Italia è un paese devastato: invece dei soliti lamenti, perché non mettersi a descrivere per bene (poniamo)la stazione di Milano, la riviera adriatica, la costa campana-calabrese, sicula, e altri posti notoriamente vandalizzati?
Di quella rivista non se ne fece nulla ma nel 1995 iniziarono le pubblicazioni de “Il Semplice”, altra rivista celatiana edita da Feltrinelli, sempre precedute fin dal 1992, da gruppi di lettura aperti che si tenevano alla Fondazione San Carlo di Modena. Proprio quest’anno ricorrono i trent’anni della rivista, festeggiati con un incontro collettivo e aperto in due giornate di studio, il 10 e l’11 febbraio. Ai ricordi dei curatori storici (Ermanno Cavazzoni, Jean Talon, Michelina Borsari, Marianne Schneider, Daniele Benati) si sono alternate le riletture vivaci di molti giovani ricercatori.
In una lettera dell’8 novembre 1995, proprio a proposito della rivista “Il Semplice” Gianni mi scriveva:
…La nostra è puramente un’impresa fantastica, come quelle di Don Chisciotte o di Orlando. Questo vuol dire che non ci aspettiamo niente, tranne rimettere in moto le fantasie donchisciottesche, le fantasie dell’IMPRESA, come sugli emblemi antichi. E’ proprio il fatto che la politica, le opinioni, le parti, le prese di posizione, e tutto il catalogo delle ideologie, sono cose belliche e asfissianti- a spingermi su una strada di disimpegno completo: nessuno da convincere, nessuno da aizzare, ma il fatto curativo dell’immaginazione che riesce a distendersi senza ansie, senza appelli.
Dall’altra parte, è proprio tutta la galera della letteratura, la retorica per farsi prendere sul serio come autori seri, che è la cosa più opprimente nel fatto di scrivere. Così, non è neanche una renaissance letteraria a cui, credo, aspiriamo ma soltanto il fatto, semplicissimo, che circolino parole senza ansia, parole dell’incoscienza imperturbata come quella di Don Chisciotte. E, come ha detto Michelina (Borsari, n.d.r.) questo è appunto una “redenzione dalla realtà”. Cosa di cui è necessario redimersi prima di morire perché ci si crede sempre troppo, come se esistesse davvero (la realtà)…A me sembra che l’unico risultato buono della nostra impresa sia la creazione di stati di amicizia, l’amicizia disimpegnata e senza parte, senza partiti presi che vanno al di là del puro sentire.

Qualche fotografia appena ritrovata:
A Bologna, sulla collina di Montecalvo, dove all’epoca abitavo, in passeggiata e con macchina fotografica, e poi in passeggiata e serie di gag giocose con Nando e il nostro cane Camillo, che Gianni amava perché un po’ pazzo: passava le giornate a rincorrere, sbavando eccitato e saltellando contro il muro, le ombre di chi passava o delle foglie che cadevano, e se qualcuno lo disturbava non esitava a mordere. Per questo gli piaceva: cane lunatico. La casa di Montecalvo allora era il luogo di frequenti pranzi, cene e di letture ad alta voce. Alla fine degli anni settanta ci si trovava a casa sua in via Gandino o a casa di Carlo Gajani in via Farini. E lì Gianni leggeva in anteprima i suoi romanzi. Nei primi anni ‘80, prima che si trasferisse in Inghilterra con Gillian, sua futura moglie, gli incontri avvenivano fra Montecalvo e via Martinelli dove allora era andato ad abitare. I racconti che stava scrivendo si alternavano alle letture ad alta voce di Roth, come già detto, di Peter Handke, di Al limite boschivo e altri racconti di Thomas Bernhard, Patricia Highsmith, Kafka (Una relazione per un’Accademia). Lenz di Büchner lo leggevamo camminando nelle cavedagne e fermandoci ogni tanto su dei dettagli del paesaggio.


A Rouen, in Normandia, 1993, Musée des Beaux Arts. In quel periodo era lì in residenza e ci portava a passeggiare nei suoi luoghi più amati, con Joël Masson, suo grande amico di allora. Caen, Falaise, Noron L’Abbaye: straordinari momenti avere Gianni che ci accompagnava.
E poi a Providence, in Rhode Island, dove nel 2001 casualmente ci trovammo, entrambi in periodo di ricerca alla Brown University. Lì in un video legge Leopardi. Gli avevo chiesto di filmarlo mentre mi leggeva Il pensiero dominante, per un mio progetto artistico di allora. Ci girava intorno divagando, leggendo ora un canto ora qualche pagina delle Operette morali. Diceva che per leggere a voce alta Il pensiero dominante ci voleva un respiro e un ritmo che lui non aveva, che non sentiva propri, che non si accordavano alla tonalità della sua voce. Di fatto in quella lettura Il pensiero dominante presto si sciolse negli infiniti rivoli di altri meravigliosi Leopardi che lui amava di più.
Dai percorsi lineari con Gianni si passava sempre alle divagazioni in infiniti e molteplici campi. E ti si aprivano mondi, mondi di un morbido rigore…
Quel giorno fu un ennesimo regalo. Ma questo con lui non era inconsueto che accadesse. Con ogni amico traboccava di regali. Ogni suo gesto di amicizia era sempre un dono, un darsi generoso: creava stati di amicizia, disimpegnata e senza parte. Un’amicizia contagiosa e aggregante, lo ripeto. E in questo era unico.
Quel video, che era finito in un cassetto, è risaltato fuori a distanza di sedici anni. In occasione dell’incontro organizzato dalla Biblioteca Panizzi per i suoi ottant’anni l’ho montato e portato in dvd insieme ad un gioco a lui dedicato. In quest’ultimo, come un vecchio gioco da bambini dove si scompongono e ricompongono i cubi con le immagini di antiche fiabe, sei frame dal video girato in America ce lo fanno ritrovare, vicinissimo, sorridente o assorto, comunque sempre in continuo movimento, proprio come è sempre stato.
In una vecchia agenda ho ritrovato il testo di una canzone dei Beatles che ci piaceva molto e che mi aveva trascritto. Era la fine degli anni ‘70, io traducevo il saggio di Bachtin su Rabelais. Lui, che pochi anni prima, in Finzioni occidentali, aveva pubblicato Dai giganti buffoni alla coscienza infelice, meraviglioso saggio sull’umor malinconico, mi seguiva con molto interesse e consigli: letteratura popolare del Medioevo e del Rinascimento, riso, feste di piazza, alto e basso corporeo, comicità e grottesco, liberazione della parola nella pubblica piazza, creazione continua di mondi alla rovescia, gli sciocchi e stolti/saggi della letteratura carnevalizzata, …
Day after day, alone on a hill
The man with the foolish grin
Is keeping perfectly still
But nobody wants to know him
They can see that he’s just a fool
And he never gives an answer
But the fool on the hill
Sees the sun going down
And the eyes in his head
See the world spinning round…
Ciao Gianni caro.
Tutte le foto e i video a corredo di questo articolo sono di Mili Romano.
About Author / Mili Romano
Artista e curatrice, si occupa di antropologia urbana, antropologia visuale e di arte negli spazi pubblici.