Richard Mosse: le porte della percezione
In una rivista dedicata al linguaggio e alla valorizzazione dell’immagine documentaria non poteva mancare una riflessione sulla fotografia, e sul suo potenziale di cambiamento sociale. Prendiamo spunto dalle potenti immagini di Richard Mosse esposte al MAST di Bologna nella mostra Displaced, e proviamo a proporre alcune considerazioni.
Fotografia come un telegramma, un messaggio essenziale, urgente. Un messaggio che arriva da lontano, da un mondo alla rovescia, dove il verde è rosso e dove i più fieri soldati della giungla congolese si trasformano in figure disancorate dal contesto, manichini fuori posto, displaced, spiazzati. Dove le capanne hanno tetti trasparenti, fatti di cielo. Dove un campo profughi diventa una nave veleggiante su un mare color fucsia. E dove la domanda centrale si impone: quale di questi mondi è reale? Il nostro mondo, la nostra percezione in cui il verde è verde e il rosso è rosso o la totale trasfigurazione proposta da Mosse?
Ancora una volta il MAST – Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, situato nel quartiere periferico di Santa Viola a Bologna, riconferma il suo ruolo di polo culturale internazionale. È uno spazio unico per la città, per la regione, e non solo. Un progetto che si può dire visionario, un ponte tra una delle aziende più importanti del territorio e le declinazioni di un futuro possibile, all’insegna della responsabilità sociale di impresa. L’azienda come motore propulsore di cultura, come ambiente di sperimentazione sociale, come stimolo ad una riflessione collettiva sui grandi temi e sulle criticità del nostro tempo.

Tecnologie militari
La prima mostra antologica dell’artista Richard Mosse, curata da Urs Stahel, presenta un’ampia selezione dell’opera del fotografo irlandese, classe 1980. La ricchissima e innovativa opera di Mosse si concentra fin dagli inizi su temi cruciali del nostro tempo: conflitti, migrazioni e cambiamenti climatici.
Richard Mosse inizia a occuparsi di fotografia intorno al 2000. I suoi primi lavori sono ambientati in Medio Oriente, in Europa Orientale e al confine tra Stati Uniti e Messico, e mostrano da subito il suo interesse per gli effetti dei conflitti in zone di crisi. La sua notorietà cresce con il lavoro svolto fra il 2010 e il 2015 durante le guerre nella Repubblica Democratica del Congo, in particolare nella regione del Nord Kivu, da cui derivano la serie Infra e la videoinstallazione The Enclave.
Una delle caratteristiche dell’opera di Mosse è l’uso di pellicole e apparecchiature molto particolari, spesso prese a prestito dalla tecnologia militare. Un esempio è la pellicola Kodak Aerochrome, sviluppata durante la seconda guerra mondiale per individuare i nemici mimetizzati nella vegetazione.
Come dice il curatore Urs Stahel nelle sue note a corredo della mostra:
Per la serie Infra Mosse utilizza la Kodak Aerochrome, una pellicola da ricognizione militare sensibile ai raggi infrarossi ormai fuori produzione, che registra la clorofilla presente nella vegetazione. Il risultato è la lussureggiante foresta pluviale congolese trasfigurata in uno splendido paesaggio surreale nei toni del rosa e del rosso”. L’artista ha dichiarato in un’intervista al “British Journal of Photography”: “Volevo testare questa tecnologia di ricognizione militare, usarla in maniera riflessiva per scardinare i criteri rappresentativi della fotografia di guerra”.

Per il progetto Heat maps, realizzato fra il 2014 e il 2018 nei campi profughi in Grecia, in Libano, in Turchia, lungo le rotte migratorie da Medio Oriente e Africa verso l’Europa, Mosse si è affidato alla termocamera, anche questa in uso sia a fini militari che scientifici, in grado di registrare le differenze di calore nell’intervallo degli infrarossi.

Nel cuore dell’Amazzonia
Dal 2018 al 2020 Mosse lavora nell’area della foresta amazzonica, producendo due importanti opere. Nella prima serie, Ultra, realizzata nella giungla del Perù e dell’Ecuador, Mosse fotografa piante, licheni e muschi nel cuore della notte, puntando a catturare il più piccolo segnale di bioluminescenza con i raggi ultravioletti. Ultra celebra la bellezza fragile della natura e la sua immensa ricchezza di forme e di colori, registrando però la scioccante presenza di microplastiche anche in questo ambiente apparentemente incontaminato.
La seconda serie, Tristes tropiques, documenta la distruzione dell’ecosistema amazzonico ad opera dell’uomo. La tecnica fotografica utilizzata è la cosiddetta “counter mapping”, una forma di “cartografia di resistenza” che grazie a fotografie ortografiche multispettrali mostra i danni ambientali difficilmente visibili dall’occhio umano.
Questa tecnologia permette di registrare i dati di un’immagine separati in diverse lunghezze d’onda (alcune delle quali invisibili all’occhio umano), dalla luce ultravioletta fino ai raggi infrarossi. Le immagini di singole porzioni di territorio, catturate dal drone, vengono composte attraverso l’impiego di software appositi. I droni rilevano come in una mappa le tracce del fuoco che avanza lungo le radici delle foreste, gli effetti dell’allevamento intensivo, delle miniere illegali per l’estrazione di oro e minerali. Ogni mappa di Tristes tropiques così ottenuta mostra i delitti ambientali perpetrati su vasta scala, diventando per il fotografo un archivio che li documenta.
Come ha detto l’artista in un incontro pubblico al MAST:
La deforestazione dell’Amazzonia è un problema globale, è la distruzione sistematica, consapevole, di un intero ecosistema. Milioni di persone partecipano quotidianamente a questo processo di distruzione. Eppure lo percepiamo sempre come qualcosa di astratto. Con il mio lavoro cerco di combattere il senso di astrazione che ci allontana dai fenomeni epocali che stiamo vivendo. Siamo sommersi dalle statistiche, dai dati, dalle informazioni scientifiche. Ma i giornalisti e gli scienziati hanno bisogno del nostro aiuto, hanno bisogno dei narratori, degli artisti per mostrare cosa succede sul campo. Attivisti, avvocati dei diritti umani, politici, musei, artisti. Dobbiamo tutti fare la nostra parte per produrre cambiamenti significativi.

E Mosse ha fatto e continua coraggiosamente a fare la sua parte, dedicando lunghi periodi a lavorare in zone difficili, in condizioni ambientali e sanitarie pericolose. Ha condiviso molti dei suoi ultimi viaggi con due compagni: il direttore della fotografia Trevor Tweeten e il compositore e sound designer Ben Frost.
Anche l’aspetto sonoro diventa importantissimo nella sperimentazione di Mosse. Ben Frost, registrando con particolari microfoni il mondo degli ultrasuoni, e rielaborandoli in veri e propri soundtrack, riesce a costruire un linguaggio parallelo alle immagini di Mosse. Sono veri e propri paesaggi sonori che ci arrivano attraverso lunghezze d’onda solitamente non percepibili dai nostri organi di senso.

Giunti a questo punto viene spontaneo chiedersi: quanto c’è di documentario nel lavoro di Mosse? Si può parlare di fotografia documentaria nel suo caso, intesa come registrazione della realtà, come un atto di denuncia, o un “fare memoria” attraverso le immagini? Una cosa è certa: Mosse crede nella potenza dell’immagine come agente di cambiamento sociale. Ma il suo lavoro attraversa il confine tra la fotografia documentaria e l’arte contemporanea, alimenta la sperimentazione, prova a sovvertire le convenzioni. Non a caso, pur essendo stato invitato nel 2015 a far parte della leggendaria agenzia Magnum Photos, Mosse non si è mai perfettamente adattato a quei canoni del fotogiornalismo. E non ha mai nascosto la sua insofferenza per quel tipo di fotografia che “pretende di avere la verità in mano”.
Mi considero un narratore, come potrebbe essere uno scrittore. Ma la mia narrazione parte dalla realtà. Creo immagini reali. Parto dalla pratica della fotografia documentaria ma lavoro con alcuni concetti dell’arte contemporanea. E con le libertà che l’arte contemporanea può offrire. Credo di essere molto lontano dal giornalismo.
Nel giornalismo c’è un codice etico che ti impone di verificare le tue informazioni almeno due o tre volte, devi usare linguaggi precisi, è un modo volutamente riduttivo, essenziale, di raccontare una storia. Mi muovo più sul solco di Werner Herzog o di Ryszard Kapuściński. Parte del lavoro che sto facendo con la pellicola multispectrum dall’elicottero è molto vicino al lavoro straordinario fatto da Herzog con il film documentario Apocalisse nel deserto. Una sorta di “verità estatica” che emerge dalle immagini dei pozzi petroliferi del Kuwait in fiamme.

Le immagini di Mosse sembrano vibrare su una diversa frequenza. Anche noi, semplici spettatori, partecipiamo a quel senso di spiazzamento, ci ritroviamo in un luogo diverso, straniante. Nel guardare le immagini tratte dai diversi periodi del suo lavoro, ci sentiamo spinti a osservare l’invisibile, ad aprire “le porte della percezione”, a vedere oltre i limiti della rappresentazione ordinaria.
In qualche modo io creo una mia realtà. Uso un approccio estetico, lavoro con la simbologia del colore. Cerco di far vedere le cose che l’occhio non vede, cerco di offrire al pubblico la possibilità di una percezione diversa, alternativa.
Non a caso qualcuno ha definito il lavoro di Mosse “psichedelico”. Ma i temi che attraversano la sua opera sono troppo urgenti per ridurre il tutto ad un simpatico viaggio in uno stato di coscienza alterata. Qui si tratta di rispondere alla domanda di cui sopra: quale di questi mondi è reale?
È possibile guardare alle immagini dei ribelli congolesi con il kalashnikov in mano, alle distese di baracche nei campi profughi di Moria, sull’isola di Lesbo, alla distruzione ormai quasi irreparabile dell’Amazzonia senza dire: “ah si, l’ho già visto…”? Perché il modo in cui Mosse ci propone di guardare non è “già visto”. E perché, pur vivendo immersi in un flusso ininterrotto di immagini, è possibile e necessario fermarsi, e osservare le cose da un’altra prospettiva. Provando ad andare oltre lo sguardo, e a fare la nostra parte.

In copertina: © Richard Mosse – Dionaea muscipula with Mantodea, Ecuadorean cloud forest, 2019. Courtesy of the artist and carlier | gebauer, Berlin/Madrid
About Author / Elisa Mereghetti
Regista documentarista, è tra i fondatori di Ethnos.