“L’alta Valle del Secchia nell’Appennino reggiano comprende i comuni montani della provincia di Reggio Emilia; sono piccole comunità con borgate sparse nei fianchi delle montagne fra boschi di castagni, di querce e di faggi. Numerosi torrenti scendono dai fianchi dei monti e alimentano il fiume Secchia che scorre nel fondo della valle. L’insieme dà vita ad un paesaggio di straordinaria bellezza per i diversi colori nelle diverse stagioni dell’anno.

Sveno Manari, Armanda Fiorini dal catalogo “Amanzio Fiorini, orologiaio fotografo”– Comune di Reggio Emilia, 1980

Amanzio Fiorini nasce a Nismozza, un piccolo comune dell’Appennino reggiano, il 12 marzo del 1884, da una famiglia di braccianti agricoli. In quegli anni a cavallo tra i due secoli i territori montani dell’Appennino si vanno via via spopolando. La vita è dura, fame e povertà lasciano poche alternative. Come molti suoi compaesani, Amanzio si trova ben presto costretto ad emigrare.

“L’emigrazione è stata, per oltre un secolo, il grande male della montagna. Dai pastori che primi aprirono nuovi sentieri per la Maremma, agli emigranti di dopo che nel secolo dell’unità d’Italia fuggirono questa miseria per altre miserie in Corsica, negli Stati Uniti, nelle miniere dell’est della Francia e del Belgio.”

Sveno Manari, Armanda Fiorini dal catalogo “Amanzio Fiorini, orologiaio fotografo” – Comune di Reggio Emilia, 1980

Nel 1908 Amanzio Fiorini è a Chicago, dove trova subito lavoro in una fabbrica di orologi. Qui inizia anche a fare le sue prime fotografie, con una modesta macchina Kodak, e a studiare da autodidatta i rudimenti della tecnica. Sono anni importanti, di formazione. Allo scoppio della Grande Guerra viene richiamato in Italia, dove si ritrova a dirigere un reparto di meccanica di precisione in una fabbrica di proiettili. Alla fine del conflitto torna finalmente tra le sue montagne, a Nismozza: qui con il denaro guadagnato in America riesce a costruirsi una casetta a due piani, al limite del bosco di castagni. Al pianterreno apre da un lato un piccolo laboratorio dove ripara sveglie e orologi, e dall’altro lato un atelier fotografico. Per gli abitanti della zona, si tratta di una piccola rivoluzione.

Presto Amanzio trova anche un suo stile, uno sguardo autoriale, e la fotografia diviene la sua principale occupazione. L’attrezzatura di base dell’atelier consiste in una grande macchina a lastre ed un ingranditore acquistato a Milano nel 1920, oltre agli strumenti che Amanzio si costruisce da sé, con proverbiale inventiva, come gli illuminatori ricavati da pentole di cucina. Davanti al suo studio molti montanari si mettono in fila per farsi fotografare da lui; i tanti ritratti vengono fissati, a futura memoria, sullo sfondo improbabile di un fondale in stile tropicale. Così, giorno dopo giorno, nell’arco di 30 anni di attività, Amanzio Fiorini raccoglie paesaggi, momenti di lavoro, cerimonie e feste popolari della montagna reggiana, ma soprattutto migliaia di volti, sguardi che testimoniano un’epoca ma che sembrano parlarci da una dimensione senza tempo.

“Icone di una verità talmente spontanea, queste di Fiorini, da sembrare paradossalmente irreali, metafisiche tracce di fantasmi passeggeri: trentamila segni di persone, come timbri ribattuti, si aggregano nell’album di Amanzio, un immenso mosaico di tipi, gli uni eguali agli altri, che la serialità unifica, come se bambini donne adulti vecchi, si compenetrassero gli uni negli altri, a formare una fisionomia ideale, un’emblematica testimonianza visiva della realtà sociale, che ha avuto luogo nel tempo in cui ha operato l’Artigiano-fotografo Amanzio Fiorini, che fortunatamente non ha voluto essere, apparire, un fotografo artista.”

Italo Zannier, dalla presentazione del catalogo “Amanzio Fiorini, orologiaio fotografo” – Comune di Reggio Emilia, 1980

Alla sua morte, avvenuta nel 1961 a Busana, Amanzio Fiorini lascia alla famiglia un preziosissimo archivio fotografico di migliaia di lastre al gelatino-bromuro d’argento e 4.000 negativi 6×6. Sono per la maggior parte i ritratti di pastori, braccianti, boscaioli, umili contadini d’Appennino, testimonianze vive della memoria collettiva dell’intera valle del fiume Secchia.

Molti anni dopo, alcune foto di Amanzio Fiorini compaiono su Time Life, in varie pubblicazioni internazionali ed in una prestigiosa mostra al Centre Pompidou di Parigi. Una sezione fotografica gli viene dedicata alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia ed è lo stesso artista reggiano Luigi Ghirri a realizzare il primo ed unico catalogo delle sue foto. Persino i Fratelli Alinari ad un certo punto si mostrarono interessati ad acquistare il suo intero archivio. Oggi la sua opera è promossa dall’associazione che porta il suo nome e dall’instancabile lavoro di Rosi Manari, storica, ricercatrice, autrice di numerosi testi sulla memoria e il territorio dell’Appennino, nonché nipote di Amanzio. Le abbiamo chiesto di raccontarci qualcosa in più sull’opera del “fotografo-orologiaio” e su come è possibile oggi lavorare per la tutela della storia, della cultura e dell’ambiente dei territori montani.

Da dove nasce il tuo amore per la montagna e per l’Appennino reggiano in particolare?

Sono nata fra queste montagne, al confine con la Lunigiana e la Garfagnana. Come tutti i montanari sono molto legata alla mia terra, ma è stata la trasmissione del senso di appartenenza che ho respirato nella mia famiglia a dare forza a questo mio sentimento.

Amanzio Fiorini ha documentato la vita dei montanari per molti decenni. Cosa rivelano le sue fotografie?

Inconsapevolmente mio nonno ha messo insieme un racconto, un catalogo, un film di questa terra e dei suoi abitanti. Lo sguardo magnetico che ritroviamo su tutti i volti delle persone che immortalava suggerisce un’intimità non comune tra soggetto e fotografo. Nel suo atelier fissava per sempre l’anima di chi guardava l’obiettivo. È per questo che mio nonno può essere considerato un vero testimone della sua terra. Del suo ruolo di osservatore silenzioso, attento, si ricordano in molti. Ancora lo vedono aggirarsi in paese con il suo bastone, la “zanetta”, il panciotto, le bretelle… Là dove era necessario fermare un istante per renderlo eterno, lui era presente, con la sua macchina fotografica.

Perché le persone andavano da lui a farsi fotografare?

Per tanti motivi: c’era chi doveva partire per l’America e doveva fare il passaporto, chi voleva fissare per sempre il ricordo di un matrimonio, chi voleva avere la foto di famiglia da mandare a qualche parente lontano. Mille occasioni, mille motivazioni, ma un istante unico, irripetibile. Era un momento speciale perché in quel periodo farsi fare il ritratto era veramente difficile, e anche costoso. Persino la postura delle persone ci dice che l’occasione era solenne: sono compunti, pochissimi di loro sorridono. Molti hanno posato una sola volta in tutta la vita. Come Tugnin dagl’Ost, che si tiene stretto alla sedia e guarda dritto dentro l’obiettivo, come se dovesse esplodere da un momento all’altro!

Mio nonno aveva un talento speciale per entrare in empatia con i soggetti, riusciva a cogliere la loro essenza. Ne è un esempio l’immagine di Ebe, che era malata, con la sua fragilità. O la signora anziana con il fazzoletto in testa. Sono molto legata a queste figure, perché ogni scatto racconta un’esistenza, anche là dove non ci sono informazioni su quella persona, e tutti insieme costituiscono una memoria collettiva, un patrimonio culturale. A me piace raccontare le loro storie e le storie d’Appennino. Questa è una terra minore, che non viene considerata al pari delle altre “Italie”, ma qui c’è il racconto della gente vera. Mi rendo conto di essere sul crinale, siamo nel momento in cui questa memoria potrebbe svanire per sempre. Ed è importante fissarla.

Con l’Associazione Amanzio Fiorini avete creato tanti eventi culturali per la promozione del territorio. Ce ne puoi parlare?

L’associazione intitolata a mio nonno promuove occasioni di incontro con il nostro territorio, ma in una logica aperta e possibilmente contaminata, perché punti di vista diversi possono essere motivo di arricchimento. Negli ultimi anni l’associazione si è impegnata nell’ideazione di eventi, mostre, immagini, installazioni, incontri di poesia e di arte; provando a mettere insieme il cammino, la scoperta, l’emozione e il racconto. Cerchiamo di valorizzare i piccoli borghi, ad esempio con la creazione e l’installazione di casette dei libri in villaggi remoti, ai limiti del bosco. Sono iniziative che servono a segnalare, con la presenza dei libri, una cultura vicina anche ai posti più lontani.

Cosa bisogna fare per valorizzare il territorio montano della nostra regione? Cosa è mancato fino ad ora?

Per me è una sfida molto complessa, credo che la valorizzazione debba essere capillare. Non si può valorizzare un territorio senza educazione alla cittadinanza, bisogna far crescere dei cittadini consapevoli di avere una storia importante. Bisogna creare una cultura di fondo che riconosce a questa storia locale un valore. Ti faccio un esempio concreto: mia mamma faceva la maestra elementare a Busana; quando parlava della Rivoluzione Francese, raccontava cosa succedeva in quel periodo in Europa, in Francia, in Italia, ma anche nel piccolo borgo di Busana! Questo ti dimostra che l’insegnamento può essere davvero rivoluzionario, è la chiave della cittadinanza. Non dobbiamo trasmettere delle nozioni, ma dare chiavi di lettura, far sì che la gente d’Appennino si impossessi della propria storia.

E bisogna anche esser capaci di raccontare, guardare a ciò che ci circonda con occhi diversi. Noi facciamo dell’interpretariato ambientale. Il Comune di Ventasso è il comune montano più grande dell’Emilia, è ricchissimo di storia, di luoghi naturali incredibili. Abbiamo i Gessi Triassici, le miniere d’argento nella valle dell’Ozola, la Corte di Nasseta… Questi racconti devono restituire la storia del territorio e lo spirito che lo anima.

Cos’è per te la memoria?

La memoria è il filo rosso che ci dà il senso di appartenenza ad un territorio. Credo che non si possa fare vera salvaguardia se non si fa posto alle narrazioni che rendono unico quel luogo. Solo un territorio in grado di parlare di sé, di raccontarsi fino in fondo, può essere davvero interessante.

Tutte le immagini dell’articolo sono tratte dall’Archivio Amanzio Fiorini, per gentile concessione della famiglia.